JUMP

L’immagine di copertina di questo catalogo restituisce efficacemen¬te lo spirito ferino con cui Pippo Lionni affronta ogni sua azione ar¬tistica. La ripresa di spalle del suo balzo animalesco su un oggetto scultoreo non ancora terminato, un semilavorato che non ha ancora espresso tutto il suo potenziale estetico, mostra molto di quello che egli continuamente chiede a se stesso e all’arte che pratica. Fonda¬mentalmente Lionni non ritiene mai davvero conclusa la sua azio¬ne, non concepisce l’arte come creazione di oggetti, ma piuttosto un lungo processo creativo che potrebbe non avere fine, costellato di incidenti, di contraddizioni, di dubbi e ripensamenti, ma anche di occasioni, di incroci inattesi, di nuove strade da intraprendere.

Anche la sua attività scultorea, alla quale si sta dedicando con la concentrazione e la passione di un pioniere, è nata da un pas¬saggio apparentemente logico, quasi inevitabile, ma concepibile soltanto se letto attraverso la febbrile inquietudine di novità e spe¬rimentazione che Lionni ha sempre mostrato in ogni fase del suo fare artistico.

Si fatica anche a definire pittura e scultura il suo operare perché si tratta in realtà di azioni espressive che muovono da una evidente spinta di libertà e non è facile ingabbiarle in definizioni precostituite.

Quando lavora Lionni non si muove attraverso una linea gerarchica di fasi successive che passano dal momento ideativo, al bozzetto o modello, fino alla definitiva stesura e realizzazione dell’opera; egli si muove senza schemi, tutto avviene e proviene dal profondo, dallo stato emozionale del momento, verrebbe da dire dall’inconscio. È lui stesso a dirlo “Io non lavoro sulla traccia di disegni o abbozzi (…) la mia pittura è immediata (…) il metodo di dipingere è il natu¬rale manifestarsi di un bisogno. Io voglio esprimere i miei sentimen¬ti, non illustrarli. La tecnica è soltanto un mezzo per raggiungere questo risultato. Già mentre dipingo, ho dell’opera una nozione generale. Io posso controllare il fluire della pittura. In essa non vi è nulla di casuale, così come non vi è né principio né fine”

Sia quando si trova davanti alla superficie della tela o delle carte, da affrontare con gli inchiostri e le spatole, sia nel vuoto dello spa¬zio dove quegli stessi segni, posati sul piano ma pensati da subito nella terza dimensione, prendono la forma e la consistenza della scultura, Lionni dialoga direttamente con la forma e le sue necessi¬tà, con le ragioni della sua stessa esistenza condizionata e messa alla prova dall’incontro e/o la collisione con il mondo reale e le altre espressioni umane.

Così era entrata in ballo la musica, in funzione di re-bound della re¬altà esterna, chiamata a creare una sorta di contraccolpo espressi¬vo e suggerirne al tempo stesso la via d’uscita. Un colloquio dialet¬tico continuo, dove la musica e la pittura si ritrovano nello scontro di consonanze e dissonanze, ritmi e aritmie, e si creano segni grafici e acustici, finché l’atto stesso della creazione pittorica non diventa azione musicale.

Si è trattato, per Lionni, di un periodo creativo di grande fecondità nel quale la dimensione pittorica e quella musicale si sono confron¬tate e sfidate, provocando risposte sorprendenti e inattese.

Si è trattato anche di un periodo di continui ripensamenti, di voglie di cambiamento e la tentazione di intraprendere altre strade. Tutto ciò non va considerato separato dal modo di agire e operare in arte di questo autore, poiché una certa insoddisfazione latente a mante¬nere a lungo i livelli raggiunti, il rifiuto di un eccesso di iterazione e ripetitività dei risultati, la necessità di esplorare nuove “terre inco¬gnite”, costituiscono uno dei dati e forse l’essenza stessa di quell’a¬gire. Il percorso di Lionni è costellato di frequenti cambi di direzione e di passo, un processo sempre in moto che lo induce ad imboc¬care strade nuove ogni volta che ne intravede una particolarmente stimolante e che finisce per risultare, quasi sempre, soprattutto per chi osserva, piena di sorprese.

È il caso appunto del passaggio avvenuto dall’azione pittorica alla manipolazione della materia nello spazio. Non si è trattato di una scelta meditata a freddo, derivante da un calcolo razionale o da una, pur geniale, intuizione; si è trattato più semplicemente di un punto di approdo quasi naturale, giunto al culmine dell’ evoluzione di un linguaggio di lontana derivazione grafica, rimasto fermamente anco¬rato alla città e all’architettura, espresso attraverso la trama di vettori pittorici strettamente intrecciati, come a configurare la complessità del tessuto urbano. Anche quando dipinge Lionni lavora nello- e con-lo spazio e crea segni che hanno la densità del volume.

Egli era già da tempo passato oltre, rispetto a questa fase. Già aveva intrapreso una strada di più radicale informalità, proseguen¬do nel processo evolutivo della sua “action painting”; aveva ab¬bandonato, almeno parzialmente, le spatole usate da sempre nella stesura delle vernici e le loro tracce geometriche, per affidarsi alla assoluta casualità del “dripping”. Ma anche questo è stato un momento di passaggio, un cambia¬mento necessario per superare una fase ormai acquisita, dalla 6 7 quale Lionni sentiva di doversi emancipare, un’esperienza che doveva lasciare spazio a qualcos’altro che stava sopraggiungendo.

Paradossalmente nel momento in cui lo stadio della ricerca di Lionni era giunto ad uno dei suoi momenti di maggiore astrazione e distanza dalla forma, una vera e propria decomposizione e sma¬terializzazione della sua pittura, egli ha intravisto un nuovo inizio, una sfida a rendere concreto e plastico ciò che era divenuto ormai una semplice traccia metafisica. Ha capito che il segno abbandona¬to sulla carta o sulla tela era un simbolo forte di libertà, ma anche qualcosa che finiva per rimanere prigioniero della superficie, non valicava i contorni di quel perimetro e allora ha deciso di liberarlo, di farlo uscire nel vuoto dello spazio, di allargare il suo orizzonte.

Ha deciso di misurarsi direttamente con il contesto reale, con il mondo artificiale della città, con il paesaggio, con la natura e con il cielo.

Rispetto alla velocità e quasi istantaneità dell’agire pittorico che caratterizza l’opera di Lionni, la scultura è tutt’altra cosa, non con¬sente immediatezza e contemporaneità tra pensiero, sentimento e gesto artistico. Costruire un’opera con materiali duri e pesanti implica molto lavoro, molta fatica. La pittura può sgorgare fluida e senza interruzioni attraverso un rapido processo che pone in diretta correlazione la mente, l’anima e la mano; la scultura è costruzione, procede attraverso azioni preordinate, tecnicamente controllate, passaggi consequenziali che non possono essere ignorati o sem¬plificati. L’artista, in questi casi, diventa operaio, uomo di officina, muove attrezzature pesanti, paranchi, macchine piegatrici, saldato¬ri. Persino questa fase, più tecnica e condizionata, apparentemente etero-diretta, è in realtà un altro momento dell’azione creativa, allo stesso modo in cui è un’azione artistica l’invenzione di questo cata¬logo.

Per realizzare una scultura che restituisca la leggerezza di un se¬gno tracciato sulla carta con la mano e comunichi lo stesso senso di libertà occorre un lavoro duro, una non banale competenza tec¬nica e una precisione di lavorazione assoluta, in quanto si devono manipolare e mantenere in sicurezza barre di ferro molto pesanti, piegarle secondo le curvature e angolature desiderate, saldarle con la precisione e la meticolosa pulizia di un orefice.

Cambia anche drasticamente la scala dell’intervento. Il segno che viene tracciato con la mano sulla superficie ha dimensioni indefinite perché si propone attraverso un codice, quello della rappresenta¬zione, può essere più piccolo o più grande di quella che riteniamo sia la sua corretta dimensione. Il prodotto scultoreo, manipolato e finito rappresenta invece, a tutti gli effetti, se stesso collocandosi nello spazio con le sue reali dimensioni.

I suoi riferimenti non sono mediati dalla rappresentazione ma sono quelli propri della realtà: le proporzioni umane, la prospettiva dell’o¬rizzonte, le forme del paesaggio e l’infinito del cielo. Quando il segno libero di Lionni passa dalla carta alla dimensione dello spa¬zio la scala aumenta radicalmente perché il riferimento non si limita più all’occhio di chi guarda, ma si proietta direttamente sul contesto e tende a competere con le dimensioni assolute del mondo reale. Il fermo immagine fotografico lo riporta, in una fase successiva, ad un’altra realtà scelta, di nuovo, con soggettività di artista, per il conseguimento finale dell’immagine definitiva.

Le sue sculture, tutto ciò che egli sta sperimentando in questa fase di creazione tridimensionale, nascono pensate come parte del pae¬saggio, sia urbano che naturale, si propongono come un elemento di integrazione e di completamento del disegno ambientale pre¬esistente; lo fanno ponendosi in continuità con esso e con le sue forme, ma anche attraverso il dialogo della contrapposizione tra linguaggi diversi che possono coesistere proprio in funzione delle diverse provenienze culturali ed espressive.

Qualsiasi forma d’arte pratica Pippo Lionni lo fa con tutto il corpo, dedicando all’opera che esegue ogni suo muscolo, ogni nervo, tutta l’energia fisica e mentale di cui è capace. Non si stanca e non si accontenta. Finché il turbinoso lavorìo che mantiene vitale la sua ricerca consente di intravedere una linea di orizzonte al di là di quella già stabilita, il viaggio non può dirsi concluso, l’esplorazione continua, la meta non è raggiunta. Tutto questo, al pari delle opere che vengono prodotte e rimangono a testimonianza dell’atto cre¬ativo, entra di diritto nel bilancio complessivo del fare arte; in certi casi i caratteri fisici dell’agire, il totale assorbimento della persona nel processo creativo, in qualche caso la cancellazione stessa del già fatto per favorire un nuovo inizio, sono elementi riconoscibili di un’attività artistica che merita di essere documentata e riconosciuta come tale.

Il balzo aggressivo di Pippo Lionni, così come il passaggio dei cin¬goli sull’opera che non ha ancora raggiunto il suo limite, descrivono più delle parole il modo in cui egli intende il suo lavoro di trasfor¬mazione della materia e con quale totalità di mezzi sia disposto a raggiungere i propri obiettivi artistici.

Carlo Nepi, Siena, 05/2022



MEETING

CG - Hai passato più tempo nella tua vita a maneggiare pennelli e spatole piuttosto che a fare scultura. Eppure, il tuo catalo¬go si apre con la scultura, e la pittura arriva piuttosto al secondo posto. È stato l’intero processo del dipingere che ti ha portato a occuparti di scultura o è la scultura che illumina ciò che hai fatto fino ad ora, e oggi questi dipinti e disegni hanno invertito la tendenza e si prolungano nella scultura, e non il contrario?
PL - La scultura è, in un cer¬to senso, un’estensione della pittura, o il tutto nasce dalla medesima percezione, SENSA¬ZIONE… quella del movimento e della traiettoria. La scultura ha una dimensione che non riuscivo a trovare nella pittura.
CG - La terza dimensione?
PL - No, piuttosto un certo rap¬porto con lo spazio. Poi, però, con la scultura sorge un altro problema. Vedo i miei dipinti come finestre aperte su qual¬cosa di più grande. La forma o superficie inizia altrove, passa attraverso e prosegue altrove, inquadrando parte di un vasto spazio, al di là di ciò che vedia¬mo. Mentre dipingo le grandi tele stese sul pavimento o piego i tondini d’acciaio in cortile, io sono dentro, sono circondato dalle forme. Anche con sculture più piccole, io mi immagino dentro a esse. Non sono davanti a me, ma intorno a me.
CG - Ho la sensazione che sia stata piuttosto la scultura a permetterti di ritrovarti in questa immersione avvolgente, per¬ché anche quando ti muovevi intorno, sulle tue tele orizzontali, si trattava piuttosto di un parco giochi. Non avevamo ancora, a quel punto, questa sensazione di immersione.
PL - La scultura è necessaria¬mente limitata, finita. Non ha, almeno per il momento, quest’im¬maginario senso d’infinito. Ma le fotografie scattate dall’interno della scultura hanno l’illimitata qualità infinita che hanno i grandi dipinti. Per me, l’atto di fotogra¬fare diventa parte del processo lavorativo, non solo la documen¬tazione della scultura in quanto oggetto.
CG - Sì, ma perché ti serve la cornice?
PL - Non so perché, è solo il modo in cui lo vedo io − come un momento o un segmento di una forma continua.
CG - In fondo, anche nella tua pittura il movimento ha sempre avuto molta importanza, il fatto stesso che lo legassi al ritmo e alla musica… Ho l’impressione che lavorare sulla tridimensio¬nalità ti permetta di integrare ancora di più questa nozione di movimento nello spazio. Inoltre, hai scelto un materiale alquan¬to restrittivo, la cui logistica ti costringe a rallentare. Prima, invece, parte della tua frustrazio¬ne nasceva forse dal fatto che dipingevi troppo in fretta, con una specie di frenesia del fare, fare, fare: anche se poi questo significava doverci tornare su in seguito. Questo lavoro fisicamen¬te vincolante, in acciaio, con tutti questi strumenti che mostrano forza e resistenza, ti costringe a prenderti del tempo.
PL - Da giovane ebbi una storia d’amore con un’artista di danza contemporanea che esercitò un forte influsso su di me. Quando ho iniziato a fare scultura, o forse anche prima, a dipingere, mi sono reso conto che c’era un gesto, un movimento particola¬re che lei compiva – un arco e un’interruzione, un’accelerazione e una rottura –, questo movi¬mento è molto presente nel mio lavoro.
CG - Te ne sei accorto di recen¬te?
PL - Ho colto la relazione di re¬cente. Il mio lavoro è molto fisico, molto tattile… la traiettoria è una sensazione fisica. Non è un’idea concettuale o tecnica. Soprattut¬to, è il movimento di un corpo, o di una particella nello spazio. E qui siamo di fronte a un’interes¬sante contrapposizione (tutte le contrapposizioni sono interes¬santi, non è vero?): il movimento attraverso l’aria di un corpo leggero trasposto in una materia dura, pesante e statica.
CG - È un movimento del corpo che incontra la sua costrizione, il suo limite, il suo impedimento?
PL - Assolutamente sì. Oggetti grandi, pesanti e corrugati fanno della scultura una montagna ancora più difficile da scalare rispetto alla pittura.
CG - Il tuo gusto per lo sforzo.
PL - Il mio gusto per lo sforzo, ma anche per l’ignoto. Una nuo¬va via invernale su una parete nord, lontana dal mondo dove l’arte è soprattutto discorso.
CG - Non c’è un concetto nel tuo lavoro?
PL - Concetto forse, ma discorso zero. Può avere un significato, ma il significato finale è nella percezione, e quindi è indipen¬dente dall’artista, indipendente e incontrollabile. Il mio lavoro esiste nel silenzio, un silenzio che può essere violento, ma è pur sempre silenzio.
CG - Non lavori più con la musi¬ca?
PL - Non più, o almeno non per il momento. Nel gruppo Ac¬tionreaction, mentre dipingevo producevo un certo tipo percussi¬vo di suono. Invece, il suono che produco ora mentre dipingo e scolpisco non è appropriato.
CG - In effetti, ti ha permesso di trovare il tuo ritmo.
PL - E di tenermi lontano da troppe verbosità. Lavoro lontano dalle parole, su forme senza parole.
CG - Qualcosa in te sembra più stabile, meno agitato.
PL - Sì, forse. C’è meno urgenza, meno bisogno di riconoscimento.
CG - Come disponi le tue scultu¬re? Ti limiti a lasciarle là fuori o le posizioni in un modo particolare?
PL - Come se fossero un’esten¬sione lavorativa del laboratorio. In un campo dove posso vederle in maniera diversa, e poi modifi¬carle.
CG - Le ritrasformi sempre?
PL - Spesso. A volte cambiando le forme. Aggiustandole! O anche trattando la superficie metal¬lica: e questa è una ricerca in corso. Per il momento, facendole arrugginire e trattandole con olio per motore esausto, che produce una specie di ruggine annerita.
CG - Come se il tempo atmosfe¬rico cambiasse a poco a poco il tuo lavoro. E alla fine risulta coerente.
PL - E posso anche decidere di trasformarne una passandoci sopra con il trattore…
CG - Davvero lo fai?
PL - Sì, certo. Non con quelle molto grandi, perché si spac¬cherebbero i cingoli, ma con le sculture più piccole, sì.
CG - Quelle che non ti sono piaciute?
PL - No, non necessariamente: quelle che dovevano andare oltre. Frantumate e poi appese al muro come nuove sculture. In effetti, la trasformazione è fondamentale nel mio lavoro: la de-stabilizzazione e poi la ri-stabilizzazione. Ma questo permette anche di capire chi sei… di vedersi come il denomi¬natore comune dei diversi lavori, realizzati con mezzi diversi. Quando passo sulle sculture con il trattore, l’opera è “de-formata” e “ri-formata”. È un’azione che ha molto della stessa dinamica indeterminata, casuale e acci¬dentale della maggior parte dei dipinti. Le singole opere sono momenti di materializzazione da conservare oppure da trasforma¬re perché diventino nuove opere singole: comprane una fetta, e quelle strisce sono altri esempi di un gioco che si situa al limite del controllo…
CG - Quando inizi, lo fai con sbarre di ferro lunghe 6 metri e non sai dove sei diretto?
PL - A volte sì, a volte no. Anche se avessi le idee chiare, non fini¬rebbe mai come avevo immagi¬nato. Non riesco a controllare la forma così bene. L’idea iniziale, ammesso che ce ne sia una, sa¬rebbe un pretesto per comincia¬re. E presto sarebbe abbandona¬ta. Comincio, emergono le forme, cambio idea ed emergono altre forme. Vengo spinto in avanti dal dialogo critico con il lavoro − incasinalo e sistemalo − azione e reazione più e più volte. Inoltre, la forma dipende interamente dalla mia capacità fisica e tecnica di trasformarla. I vincoli rap¬presentati dal materiale e dagli strumenti a mia disposizione non consentono tutto. C’è molta im¬provvisazione e ci sono continui viaggi al negozio di ferramenta e al cantiere d’acciaio. Adesso sto realizzando grandi sculture con barre solide di 6 metri per 4 cm di diametro, che sono i limiti di quanto può essere traspor¬tato in studio con un camion e piegato manualmente. Quando si eseguono sculture più piccole, con barre da 1 cm o 2 mm, la proporzione 150:1 è la stessa. Questo sistema di vincoli è un po’ ossessivo, ma è necessario limitare le possibilità per creare altre zone di libertà.
CG - Quanto è grande la tua officina all’esterno?
PL - Cento metri quadrati, con un laboratorio in fondo, e un campo di diverse centinaia di metri qua¬drati dove dispongo le sculture mentre aspetto e guardo.
CG - In generale, quanto tempo dedichi a una scultura?
PL - Difficile dirlo. Alcune settima¬ne, incluse le modifiche.
CG - E oggi continui a dipinge¬re? Come ti alterni fra pittura e scultura?
PL - Una sensazione, o forse una frustrazione, mi spinge a cambiare. C’è ancora libertà e velocità nella pittura. Ma arrivo presto a un punto di saturazione o ridondanza.
CG - Già, ma questa è la vita di un artista. Ti senti come se fossi tornato dove hai iniziato, e invece è una spirale, non è mai davvero lo stesso posto…
PL - Non so mai come stanno procedendo le cose. So che le cose stanno procedendo e che, perché procedano, devo lavo¬rare. Non è molto importante sapere, bisogna solo crederci. E poi, chi e come giudicare? L’arte è importante perché è indefinita.
CG - E tale dovrebbe rimanere.
PL - A ben vedere, riferirsi a “lavoro” invece che a “oggetto” è corretto. “Lavoro” integra tutta la ricerca e lo sviluppo dei mezzi necessari per creare i pezzi, senza i quali il lavoro non potreb¬be esistere. Disporre un dipinto di 2 x 3 metri su una parete, spostare una scultura di 500 kg o tagliare e saldare barre di ferro di 40 mm di diametro diventano molto complicato quando sei da solo. Avere e saper usare gli stru¬menti, spesso per compiti a cui non erano destinati, e inventare procedure con coreografie e se¬quenze precise. Con la scultura, il problema viene moltiplicato per 1000. Trovare soluzioni fa quindi parte del lavoro.
CG - Dover superare le difficoltà è davvero tipico tuo, in particola¬re è il tuo caso. Ma non è neces¬sariamente il caso degli altri.
PL - E che gioia è! Logistica com¬plicata ed esplosiva libertà!
CG - E provi questo stesso pia¬cere anche dopo, quando tutto è finito e guardi le tue sculture?
PL - No, anzi. Sono già altrove, o se sono ancora lì sto imma¬ginando come sistemarle. Nei confronti dei lavori finiti sono del tutto indifferente. In realtà, li vedo solo quando li guardano gli altri; altrimenti, non li vedo.
CG - Cogli qualcosa di te, in essi? PL - Sì, ma non sempre. So di averli fatti, ma a volte mi sorpren¬do: torno allo studio senza rico¬noscere il lavoro fatto. Mi ritrovo più spesso in essi nei momenti di sconvolgimento e di cambiamenti radicali di direzione. Altrimenti, non ho molto senno di poi.
CG - Di nuovo l’immersione totale!
PL - E inoltre sono piuttosto insoddisfatto. Vedo cosa voglio cambiare, o fare in maniera diversa nel pezzo successivo.
CG - Questo non cambia con l’età?
PL - Per il momento no. È il ritmo
Ha cambiato. L’età è piena di molti fastidi, ma non mi fa sentire più calmo. Forse meno isterico riguardo alla rappresentazione e al riconoscimento, ma comunque altrettanto ossessionato dalla necessità di fare il lavoro.
CG - Ho l’impressione che tu sia riuscito a trovare un equilibrio tra il lavoro in fattoria, che mette in moto quest’energia, e il tuo tempo nello studio. Sei sempre in azione e la vita di campagna è probabilmente meno vincolante, quindi vivi in modo più armonio¬so.
PL - Può darsi. La vita nelle grandi città si basa sul confronto e sulla competizione. Sull’abbon¬danza, e io mi sento subito satu¬ro. Oggi mi commuovo raramente per quello che vedo alle mostre. Spesso le trovo davvero troppo piene di parole.
CG - Non succede così nelle grandi retrospettive.
PL - E nemmeno nelle mostre di collezionisti pazzi…
CG - Su questo problema della visibilità, Instagram un po’mi ha calmata.
PL - Interessante. Mostriamo il lavoro, ma non sappiamo se poi viene visto.
CG - Come lanciare una bottiglia in mare. In entrambi i nostri casi, ha l’effetto di un diario.
PL - Incontri online: arte invece di sesso. Intéressante come la maggior parte dell’arte online si sia evoluta da “guarda¬la” a “guardami”. Un po’ l’opposto della modalità manuale – mate¬riale – tattile… ma pur sempre uno strumento. In ogni caso non è banale.
CG - Ciò che è comune nel nostro rapporto con Instagram è che Instagram costituisce un percorso o una progressione.
PL - E un archivio per i ricordi mancanti…
CG - Come ti poni rispetto agli scultori monumentali, a Richard Serra, per esempio?
PL - Sono cresciuto in quel mondo, è la mia cultura: espan¬siva, fisica, non intellettualizzata, costruzione e gestualità, non verbale, spirituale o romantica. Immagino d’essere molto ameri¬cano, in questo.
CG - Caro amico, basta così?
PL - Basta così!

Intervista di Catherine Geoffray a Parigi, 19/10/2022, tradotto dall’inglese da Mario Maffi



ACTIONREACTION GROUP

ACTIONREACTION è un laboratorio per la sperimenta¬zione dell’improvvisazione interattiva. Lo scambio è tra pittura astratta, letta come rappresentazione musicale, e musica contemporanea sentita e trasformata in forma visiva astratta.

Pippo Lionni usa spatole per dipingere tele in bianco e nero di grandi dimensioni. I suoni registrati della pittura struttu¬rano le opere acustiche ed elettroniche della composizione musicale. Ogni pezzo è una stratificazione di pittura e strati sonori. Pertanto, mentre il processo creativo è in continua evoluzione, l’idea di base è che il dipinto abbia una forma sia visiva che sonora e che la composizione musicale stia allo stesso tempo influenzando il dipinto e ne venga influenzata. Mentre ci sono state numerose esperienze di artisti che dipingono nel momento in cui i musicisti suonano in secondo piano, Actionreaction è originale perché Pippo Lionni dipinge e fa musica allo stesso tempo: il suono è il dipinto e il dipinto è il suono.

Actionreaction è iniziata nel 2016 con Sergio Corbini al pia¬noforte, sintetizzatori ed elettronica, e Stefano Franceschini ai sassofoni soprano e baritono ed elettronica i quali hanno composto leggendo le forme astratte del dipinto come se fosse uno spartito musicale. Silvia Bolognesi al basso li ha accompagnati quando possibile. Nei brani da AR1 a AR3 è stato utilizzato il “metodo one-shot”, in cui le composizioni musicali erano risposte a dipinti finiti. Con AR4 e AR7 il me¬todo è diventato “circolare” per cui Sergio e Stefano hanno composto musica utilizzando fotografie e una registrazione audio per ogni strato pittorico in modo che ogni risposta sul piano compositivo musicale ha influenzato la succes¬siva sessione di pittura. Ogni pezzo finale è un dipinto multistrato e una sequenza di composizioni musicali. Questa serie di opere, da AR1 a AR7, è documentata nel CD “ActionReaction 1” edita da Slam Records, London nel 2017. Successivamente il gruppo Actionreaction ha iniziato a lavorare con i film, quindi il materiale distribuito includeva l’azione della pittura, il movimento del pittore e il suono. Dopo una serie di prove in studio, gli AR8 e gli AR13, il gruppo ha eseguito la sua prima esibizione dal vivo AR14 nella primavera del 2017 a Gaiole, seguita da “simultaneous actionreactions” AR17 a Parigi, AR18 a Gaiole, AR19 a Firenze e AR20 eseguita metà a Firenze e metà a Siena.

Le esibizioni dal vivo sono eventi di 2 o più sessioni a distanza di circa 6 ore l’una dall’altra. Occasionalmente ci sono state performance con 2 opere eseguite contempo¬raneamente, separate da interventi sulla metodologia, le riflessioni sulla complessità dell’arte sperimentale incro¬ciata e sul linguaggio comune della forma. Il vantaggio del “performance method” è legato alla sincronicità, lo svan¬taggio al fatto che ogni pezzo essendo unico non può mai essere rifatto, quindi è stato difficile comporre pezzi più complessi che comportano una successione di movimenti. AR15 è stato un ritorno a fare composizioni occasionali di “metodo circolare” che consentono composizioni costrutti¬ve più complesse.

Nel 2020, Ingvar Larsson con Moog e tastiera si è unito ad Actionreaction e AR 24, 25, 26 e 27 nella serie KNUFOC¬SID sono stati creati in duo tra il Chianti in Italia e Gote¬borg in Svezia.

Come laboratorio per la sperimentazione dell’improvvisa¬zione collaborativa, il gruppo ACTIONREACTION è potuto nascere perché tutti i componenti avevano esperienza nell’improvvisazione musicale, le due forme d’arte sono entrambe astratte, e non hanno bisogno di una struttura e di una metodologia di composizione predeterminata.



ASTRAZIONE IN AZIONE

A volte capita che due mondi totalmente diversi si incontri¬no e quando questo succede possono accadere cose stra¬ordinarie. Siamo a Gaiole in Chianti, piccolo centro della Toscana senese, qui vivono da anni grandi artisti, uno di questi è Pippo Lionni, che in questo microcosmo riesce a trovare la sua ispirazione.

Tutto ha inizio a ottobre 2015 e continua per altri tre anni, fino al maggio del 2018. Questa esperienza nasce dalla proposta dell’amministrazione comunale di fare una mostra negli spazi delle Vecchie Cantine. L’artista, però, non vuole imporre il proprio lavoro, con una mostra “calata dall’alto” in una comunità lontana dall’arte contemporanea.

Pippo Lionni si propone di introdurre l’arte astratta contem¬poranea nel linguaggio della comunità creando ambascia¬tori capaci di diffondere la cultura.

Chi meglio dei ragazzi piccoli?

Pippo, in collaborazione con gli insegnanti della locale scuola elementare, inizia l’avventura ASTRACTION IN ACTION, basata sul principio dell’arte come processo fisico, emotivo e mentale − come azione, qualcosa che possono fare e di cui essere parte.

Iniziando con una visita alla sua mostra a Siena dove ha introdotto l’idea dello spettatore come parte dell’opera d’arte, gli studenti hanno poi osservato Pippo dipingere nel suo studio sulle grandi tele a piedi nudi, entrare nella tela bianca, inginocchiati, impugna una spatola, immergila nel nero, allunga il braccio e tutto il suo corpo agisce.

L’opera inizia, cresce, l’energia con cui colpisce la tela produce suoni, rumori. Pippo racconta di sé, del suo modo di dipingere, un modo fisico, corporeo, paragonabile a una lotta tra l’artista e la tela, l’artista e se stesso. Successiva¬mente Pippo entra in classe e, con il suo entusiasmo, tra¬scina i ragazzi in un mondo parallelo, quello astratto, fatto di luci, di contrasti, di forme, di movimento, di emozioni. L’arte astratta è vissuta dai ragazzi come una volontà di comunicare con linguaggi liberi, soggettivi, e privi di regole precostituite, come una necessità di espri¬mere i propri contenuti, senza prendere in prestito nulla dalla realtà che li circonda.

Tutto questo con una narrazione articolata a livello univer¬sitario e allo stesso tempo considerando alla pari i bambi¬ni, i quali non hanno bisogno di alcuna semplificazione.

Guardare le opere di Mondrian, Pollock, Kline, Stella, Frankenthaler, Mitchell, sentir parlare di Hegel, ascoltare la musica di John Cage, ispirata al rumore della vita e che entra a far parte del loro mondo in modo inaspettato e sorprendente, li porta in una nuova dimensione. In pratica, gli studenti hanno lavorato alla realizzazione di arte astratta attraverso la fotografia, utilizzando la “realtà” come fonte di forma da trasformare.

I bambini, soggetti attivi del proprio percorso, nel pro¬gettare e nel fare, diventano se stessi, ciascuno con la propria peculiare identità. Proprio in questo consiste il valore formativo-educativo di tutto il progetto: fare, darsi la possibilità di sbagliare, valutare e auto valutarsi, scegliere e riprovare sono il fondamento per un percorso di crescita nella scuola come nella vita. L’arte come progetto, entrando a far parte del tessuto culturale della scuola e della comunità, continua a rappre-sentare un’opportunità unica per creare un insegnamento/ apprendimento attivo, interattivo ed efficace.

L’esperienza diventa un momento di confronto, uno scambio tra situazioni di vita, quella di ciascun alunno della scuola di Gaiole con gli altri alunni, con le maestre e con l’artista, offrendo una nuova chiave di lettura, quella del semiologo francese Roland Barthes: il PUNCTUM, un’indagine sul rapporto fra realtà e immagine.

Ogni anno il progetto aveva un tema: il primo anno era “L’astrazione come atto manuale di resistenza” e il se-condo “L’osservatore dentro e parte di un’opera d’arte”. Il tema del terzo anno era “Meta livelli di astrazione”: Pippo faceva tenere in tasca agli studenti la foto di un’opera d’arte di un noto artista e, una volta alla settimana, davanti all’immagine i ragazzi dovevano scrivere i propri pensieri e sentimenti. Alla fine del semestre, dopo aver esaminato i loro testi, dovevano riassumerli in un nuovo elaborato critico.

La presenza forte di Lionni e della sua opera nella scuola di Gaiole, per tre anni, ha rappresentato per i ragazzi e per gli insegnanti coinvolti, un enorme arricchimento sul piano educativo-didattico e un’esperienza formativa unica; per l’intera comunità e per l’artista stesso, ha costituito un’op¬portunità di conoscenza di forme artistiche espressive e ha determinato una crescita culturale.

Patrizia Forni, Gaiole in Chianti, 05/2022



LABORATORI DI ASTRAZIONE PER I PIÙ PICCOLI: PIPPO LIONNI A GAIOLE IN CHIANTI

Quest'anno sono 65 gli studenti che hanno partecipato al progetto 'Astrazione in azione'

E’ un progetto più unico che raro quello sperimentato per il secondo anno consecutivo dal Comune di Gaiole in Chianti con i bambini della scuola primaria. Raro, perché sono poche le persone che hanno la possibilità di avvicinarsi, in tenera età, all’arte in un modo così totalizzante e coinvolgente. Unico perché questi bambini lo hanno fatto con un’artista come Pippo Lionni. L’arte astratta è la massima espressione di una volontà di comunicare con linguaggi assolutamente soggettivi, liberi da regole precostituite: Pippo entra in classe con il suo entusiasmo di sempre, trascinando i ragazzi in un mondo parallelo, fatto di luci, contrasti, forme, movimento, emozioni. Si confronta con loro, chiede consigli, spiega, li accoglie nello studio privato di Radda in Chianti, dove sta creando nuove opere. I bambini entrano in empatia con l’artista, vivono le emozioni contrastanti dell’atto creativo, i dubbi, le scelte. Tutto diventa naturale, anche parlare di Mondrian, Pollock, Kline, Stell, Hegel, ascoltare la musica di John Cage ispirata al rumore della vita. I bambini si appassionano a tal punto da incontrare Pippo Lionni per strada e fermarsi a discutere di astrazione. Tutto questo è fantastico considerando che hanno solo dai 9 agli 11 anni e per loro l’arte è così vicina da essere familiare! “Mi rivolgo a loro come se fossero studenti universitari – spiega Pippo Lionni – affrontiamo tematiche anche complesse, ascoltano, lavorano, fanno ricerche sugli artisti del dopoguerra, sperimentano. Prendono dalla vita e astraggono”.

Lo scorso anno il progetto ‘Astrazione in azione’ ha coinvolto 40 alunni, che partendo dal foglio bianco, hanno espresso se stessi attraverso il segno, il colore e le forme. Quest’anno sono 65 gli alunni che da dicembre sono stati protagonisti dei laboratori, facendo astrazione attraverso la fotografia. Hanno esplorato gli spazi del quotidiano, il giardino, il bosco, la lavanderia, l’officina del fabbro, osservando con occhi nuovi e utilizzando il cellulare per realizzare delle opere d’arte. In questo percorso hanno incontrato anche due fotografi professionisti: Lelia Scarfiotti e Antonio Carloni.

“Il progetto – spiega il sindaco Michele Pescini – nasce dalla volontà del Comune di mettere a disposizione della comunità, una risorsa così importante come Pippo Lionni che abbiamo la fortuna di avere a Gaiole, da 35 anni. Introdurre all’arte i bambini attraverso un progetto complesso e articolato è una sfida che Pippo ha accolto con generosità e fantasia, mettendosi a disposizione come volontario. Ci piacerebbe proseguire e magari aprire un cantiere dell’arte permanente dove la scuola possa lavorare nel quotidiano.”

L’EVENTO ESPOSITIVO A CONCLUSIONE DEL PROGETTO – DAL 27 MAGGIO AL 4 GIUGNO Sabato 27 maggio, alle 18, alle vecchie cantine, sarà inaugurata la mostra ‘Astrazione in azione’, con l’esposizione delle foto astratte realizzate dai bambini. La mostra rimarrà visitabile fino al 4 giugno su appuntamento. In contemporanea, nella stessa location, si terrà la mostra ActionReaction, il progetto interattivo nato dall’unione tra la pittura astratta di Pippo Lionni e la musica contemporanea di Sergio Corbini, Stefano Franceschini e Silvia Bolognesi. Gli artisti si sono influenzati a vicenda, dando vita ad una stratificazione di pittura e suoni. Il dipinto acquisisce una forma visiva e sonora e al tempo stesso l’improvvisazione musicale scaturisce dall’azione pittorica in evoluzione. Le 7 composizioni musicali così realizzate sono raccolte in un CD che è stato presentato in anteprima a Londra il primo maggio.

Pippo Lionni, nato a New York nel 1954, è in perenne movimento fra Stati Uniti, Parigi, la Svezia e il Chianti dove ha una casa di famiglia. Nel 2001 ha ricevuto il primato di ‘Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere’ dal Ministero della cultura francese e il suo lavoro artistico è stato protagonista di numerose mostre internazionali che, dal 1990 a oggi, lo hanno fatto conoscere in molti Paesi del mondo. Un artista dal background multiculturale e una formazione multidisciplinare che si percepisce nella varietà delle forme espressive. Le tele più recenti sono bianche, di grandi dimensioni, con segni rigorosamente di colore nero realizzati con una spatola al posto del pennello. Quella di Pippo è una famiglia di artisti: il nonno Leo Lionni, è stato pittore, grafico, scultore, designer nonché uno dei più importanti illustratori di libri per bambini.



“IN ASTRAZIONE” UN TERZO OCCHIO PER GUARDARE IL MONDO

Un’altra tappa del nostro cammino nel mondo dell’astrazione inizia a dicembre, quando Pippo Lionni incontra nuovamente le bambine, i bambini e le maestre della scuola primaria di Gaiole. Pippo entra in classe e, con il suo entusiasmo, trascina i ragazzi in un mondo parallelo, quello astratto, fatto di luci, di contrasti, di forme, di movimento, di emozioni.

L’arte astratta viene vissuta dai ragazzi come una volontà di comunicare con linguaggi liberi, soggettivi e privi di regole precostituite, come una necessità di esprimere i propri contenuti, senza prendere in prestito nulla dalla realtà che ci circonda. Tutto questo attraverso canali di comunicazione articolati e complessi, fondati sull’esperienza e la narrazione di grandi artisti contemporanei a bambini considerati interlocutori alla pari, che non necessitano di semplificazione alcuna. Guardare le opere di Mondrian, Pollock, Kline, Stella, Frankenthaler, Mitchell, sentir parlare di Hegel, ascoltare la musica di John Cage, ispirata al rumore della vita e che entra a far parte del loro mondo in modo inaspettato e sorprendente, li conduce in una nuova dimensione.

Lo scorso anno siamo partiti da un foglio bianco, con cui i bambini dovevano dialogare attraverso il segno, il colore, le forme, esprimendo se stessi e la propria creatività nella produzione dell’opera. Per mesi hanno disegnato con gesti, con movimenti delle mani, scoprendo che, nello spazio di un foglio bianco, anche ciò che non si vede lascia una traccia. L’esperienza di quest’anno, porta i ragazzi a utilizzare la macchina fotografica con lo scopo di fare arte astratta, osservando la realtà attraverso un obiettivo che per loro diviene un terzo occhio, una lente di ingrandimento sul mondo, un modo per scoprire e scoprirsi, per soffermarsi ed andare oltre, per acquisire consapevolezza e per mettersi in gioco, un bell’esercizio per bambini spesso abituati a consumare e vivere gli spazi con frenesia.

La macchina fotografica si rivela uno strumento capace di coinvolgere ed entusiasmare tutti i bambini, nessuno escluso. Ognuno vive l’avventura di un esploratore, visitando luoghi quotidiani e conosciuti, con la voglia di scoprire e la curiosità nuova di cogliere dettagli e particolari sconosciuti e invisibili : il giardino della scuola, una foresta misteriosa; l’officina del fabbro, un labirinto di ferraglia ; la lavanderia, il laboratorio di un alchimista; il macellaio, la tana di un orso; la piazza del paese, un pianeta da scoprire. La possibilità di scattare foto, trasforma in uno scrigno colmo di potenzialità il loro cellulare, che non è più solo un mezzo per comunicare parole e pensieri, ma diviene un formidabile strumento, attraverso il quale esprimere la propria creatività, arricchire l’esperienza dello spazio, indagare e interpretare il mondo. La fotografia apre i loro occhi non per guardare, ma per vedere aspetti della realtà, dare senso e forma e trasformare elementi percepiti per creare nuove immagini che diventano il vero soggetto dell’opera.

Gli alunni comprendono che forme interessanti, se individuate, scelte e selezionate, possono essere ovunque, e scoprono che, perfino l’osservazione di un oggetto o un particolare apparentemente banali, può essere l’occasione per scattare una foto astratta. Anche un colore può mettere in moto la fantasia e costituire lo spunto per un’opera d’arte, e così la luce, i riflessi, i contrasti; le sfumature date dal fuori fuoco e il punning (movimento) possono offrire l’opportunità di distorcere il soggetto, di trasformarlo al fine di creare astrazione.

In questo percorso, insieme a Pippo, incontriamo due fotografi professionisti che vivono a Gaiole, Lelia Scarfiotti e Antonio Carloni che coinvolgono i bambini nella loro esperienza, mostrando le loro opere. Stili diversi, soggetti diversi, tecniche diverse, entrambi appassionati al proprio lavoro, trasmettono quest’amore ai bambini, dando loro indicazioni, spunti, informazioni e conoscenze utili per la realizzazione di fotografie. L’uso e la scelta della luce, delle ombre, del movimento sono spiegati attraverso esempi concreti. L’incontro consente di comprendere che nella realtà ci sono cose che nessuno riesce a vedere prima che vengano fotografate.

In tutto il processo vissuto, si alternano momenti di realizzazione delle foto, in giornate dedicate esclusivamente a questo compito, a altri di riflessione e di critica condivisi, fra i ragazzi le insegnanti e Pippo, per la valutazione e la successiva scelta delle proprie foto; in tal senso l’opera fotografica non è considerata il punto di arrivo, ma un’opportunità in continuo divenire per migliorarsi in modo sempre più consapevole, metodo questo dell’arte contemporanea, in cui l’opera si fonde con il processo stesso nel racconto dell’artista di cosa si fa e come. I bambini, soggetti attivi del proprio percorso, nel progettare e nel fare, diventano se stessi ciascuno con la propria peculiare identità.

Proprio in questo consiste il valore formativo-educativo di tutto il progetto: fare, darsi la possibilità di sbagliare, valutare e autovalutarsi, scegliere e riprovare sono il fondamento per un percorso di crescita nella scuola come nella vita. La mostra finale, con l’esposizione delle foto astratte dei bambini e l’opera di Lionni, offre la possibilità di comprendere il lavoro svolto, costituisce la sintesi per valutare l’efficacia del progetto e fornisce gli strumenti per cogliere aspetti, sfuggiti nel momento della realizzazione.

PATRIZIA FORNI e MARTINA MEMMI, Gaiole in Chianti, 4 maggio 2017



ACTIONREACTION - UNA RIVOLUZIONE DOPO IL PISOLINO

L’arte di Pippo Lionni non va trovata, va esperita, non serve mettersi in viaggio, consultare manuali d’arte, cercare punti di riferimento nei libri, appigli nelle immagini, possiamo stare comodamente seduti su un divano nella posizione che più ci piace: il viaggio che faremo sarà interiore. C’è un verbo latino che, anche nella forza dei suoi fonemi, rende palese la comprensione di questo itinerario ed è “experiri”. Significa sperimentare, provare, mettere alla prova, fare esperienza. C’è in questo verbo la tensione dello sforzo, del “se experiri”, del mettersi alla prova, del misurarsi con un’impresa, dell’affrontare l’ignoto, dell’esaminare. Per questo sull’ormai famoso divano su cui ci siamo accomodati sentiamo di stare meglio se di questa esperienza facciamo qualcosa, costruiamo un testo, giri di parole che ci mettano in comunicazione, ci avvicinino o allontanino non importa, quello che conta è che la lunghezza d’onda sia la stessa ossia quella della meraviglia, che è una capacità, una possibilità che può essere attivata, senza la pretesa di un risultato. Potremmo dire che vorremmo meravigliarci di meravigliarci, una cosa apparentemente molto elementare oppure provare a meravigliarci nel senso della rimozione di tutti quegli ostacoli che allontanano, distraggono lo sguardo, lo costringono a galleggiare in superficie, gli sottraggono la forza di inabissarsi. Ora, a pensarci bene, sul nostro affollato divano non siamo più così immobili, ora che siamo stati catturati da un vortice intelligente e cadiamo sempre più in profondità, al buio, dove ognuno è libero di perdersi come vuole, ora che siamo finalmente liberi di essere “natura”, ora che i nostri pensieri sono diventati eccentrici, non codificati e rispondono semplicemente al bisogno primario di esistere che in questa sede significa provare a non perdere di vista la meraviglia. Abbiamo tolto il superfluo della vita ordinaria, la nostra esistenza, finalmente disadorna, torna a pulsare nel gioco del dinamismo. Ognuno di noi dà voce infine a ciò che è.

Proprio questa è stata la molla all’origine dell’esperimento artistico di Pippo Lionni e dei due compositori Sergio Corbini (pianista) e Stefano Franceschini (sassofonista). Prima di tutto lontani nello spazio. Il pittore in perenne movimento fra Parigi, New York, la Svezia, il Chianti, dalle metropoli dell’oggi che trovano cifre distintive nell’eleganza di architetture storiche o avveniristiche, alla navigazione solitaria in barca a vela in Svezia, alla vita fuori dal tempo nella casa colonica di Porcignano, immersa tra i colli e i boschi che gli Etruschi scelsero per viverci in tempi remoti. Poi due artisti italiani il cui viaggio è quello creativo e dinamico del movimento jazzistico, dell’improvvisazione, un viaggio “improvvisato”, che non prevede, che non si aspetta, imprevidente, incauto, sconsiderato. Lo spazio in cui si muovono è archetipico: parte dall’Africa e arriva negli Stati Uniti, mescola realtà e leggenda, gronda spiritualità e sangue, è un viaggio che mette alla prova, permette di sperimentare mentre il cuore spesso vola da sé alle radici stesse del jazz e a quelle metropoli degli Stati Uniti dove grandi artisti scrissero la storia di questa musica.

Forse nella vita non ci si incontra mai veramente, forse ad incontrarsi sono le emozioni negli spazi che hanno dato loro forma e che rappresentano le varie fasi della nostra vita, un po’ come opere d’arte. La genesi del lavoro comune tra il pittore e i due musicisti o faremmo meglio dire tre, perché Pippo Lionni è anche un musicista, non può prescindere da tale singolarità. Le opere di Pippo Lionni sono infatti“in primis” tempo e spazio: hanno come titolo cronologia e latitudini.

C’è un tempo infatti in cui le cose accadono, gli artisti creano, capita che per caso anche si incontrino e c’è una dimensione nella vastità dell’immaginazione, uno spazio tangibile in cui l’opera ha origine e cresce. Ci sono gli odori, i suoni, ci sono le pause, i respiri, ci sono i giorni, le notti, i bisogni. C’è la tela poggiata sul pavimento dove Pippo si muove a piedi nudi, una tela che è casa e insieme mondo, dove lui poggia i piedi, il corpo, secondo una modalità di operare che fa del metodo stesso un fine. L’idea che Pippo Lionni ha condiviso con gli altri musicisti è stata quella di comporre un’opera a strati in cui la creazione fosse per quanto possibile simultanea attraverso un lavoro svolto in tre luoghi lontani nello spazio e con una comunicazione affidata, per necessità, a rari incontri, ma soprattutto alla comunicazione online, in modo che l’opera prendesse la forma collettiva di uno sforzo, di una lotta, di un accordo dagli esiti imprevedibili.

Le tele dell’ultima fase pittorica di Pippo Lionni sono bianche, di grandi dimensioni,con geometrie simmetriche e asimmetriche, tracce di meccanismi o percorsi spazio-temporali, segni rigorosamente di colore nero, talvolta con larghi spazi bianchi, lo spazio del non detto, lo spazio dove l’immaginazione già esplosa altrove, si riposa. Lo stesso Pippo Lionni definisce la creazione artistica come “la rivoluzione dopo il pisolino” con un’espressione efficace e dissacratoria che unisce due termini antitetici: il riferimento a un evento sconvolgente e una semplice abitudine quotidiana dell’artista.

Nascono dal binomio arte-musica una fabbrica di suoni, vapori musicali, stillanti sinestesie che prendono forma dallo spazio del dipinto come fosse uno spartito musicale e lo trasformano nella sua essenza sonora. Allo stesso tempo il dipinto è creato dalla musica, basata anche su rumori dissonanti e “random rhythms” ottenuti dall’artista attraverso il movimento della spatola sulla tela, delle ginocchia che vi si appoggiano, delle mani operose. Questi suoni sono in parte ripresi direttamente dal lavoro sulle tele di Pippo Lionni, alla maniera degli artisti della cosiddetta “musica concreta”, in parte sono rielaborati al computer in modo da produrre ritmi asincroni e sciami sonori. È impossibile classificare in modo univoco questa musica del tutto innovativa che certo si avvale del contributo dell’improvvisazione jazzistica ma che è anche altro, proviene infatti dalle sperimentazioni della musica elettronica del secondo’900, dalla tecnica del montaggio sonoro sulla scia della “tape music”, dall’uso dei sintetizzatori, dai “live electronics”.

L’originalità del progetto artistico deriva dalla fusione di queste tecniche, dall’improvvisazione, dall’utilizzo di musica elettronica e strumenti acustici, dall’input pittorico secondo una traduzione che dalla severità grafica del linguaggio astratto in bianco e nero delle tele recenti di Pippo Lionni porta a una vertigine di note, lanciate in aria per gioco: idee musicali che ridono, crescono, si innalzano, cadono, si moltiplicano, si contraggono, si riposano insieme a noi.

Donatella Tognaccini, Monti in Chianti, 13 settembre 2016



LA MUSICA, LO SGUARDO DEI BAMBINI E L’ARTE DI PIPPO LIONNI

Fare arte nel mondo contemporaneo può significare molte cose, molto diverse tra loro.

Il mondo reale ha perso ormai da tempo il primato di unico riferimento legittimo per l’artificio artistico.
Dal momento in cui ogni prodotto della realtà, a cominciare dalla sua immagine, è divenuto tecnicamente riproducibile, l’arte ha iniziato a battere territori sempre più ampi lavorando sulla forma, lo spazio, la luce, la materia e molto altro ancora, innescando processi percettivi sempre nuovi.

Pippo Lionni ha, da sempre, scelto di confrontarsi con la fisicità e materialità della sua dinamica azione pittorica, in diretto collegamento concettuale con una visione dello spazio intrinsecamente architettonica e musicale. Quella di Lionni è un’azione che scaturisce sempre da un processo: temporale, perché contempla attese, necessarie meditazioni, sofferti ripensamenti. Concettuale, perché tutto ciò che avviene o viene registrato sulla tela -o sulla carta- percorre un lungo viaggio nei meandri dell’inconscio prima di emergere con l’energia di un geyser improvviso.

Ho già avuto modo di riflettere sulla pittura di Pippo Lionni e di evidenziare quelli che, secondo la mia lettura, costituiscono i caratteri essenziali del suo ‘fare arte’, principalmente la capacità di combattere ogni volta un match con la tela e con se stesso, sprigionando una vitalità fisica, anzi corporale, apparentemente antitetica al pensiero, in realtà coltivato e raffinato, attorno al quale prende forma l’impulso. Egli maneggia liberamente e con autorevolezza un suo proprio linguaggio che ha complesse derivazioni e proviene dalle atmosfere metropolitane nelle quali Lionni è cresciuto e si è formato.

Da oltre un anno Pippo ed io ci confrontiamo attorno ai temi che riguardano il lavoro creativo, le forme espressive, quelle strutturali e la città stessa, nel suo fare arte e nel mio lavoro di architetto. Durante una piccolo mostra organizzata da Federico Fusi nello spazio di “Inner room”, nel Maggio 2015, nella quale presentammo una serie di disegni di architettura insieme ad una action painting iniziammo a lavorare ad una mostra più grande, “Big paintings” da tenersi nell’ Ottobre dello stesso anno nel complesso architettonico della ‘Casa dell’Ambiente’, da poco inaugurato. Il senso della mostra era rafforzato dal raffronto tra una serie di opere di grande formato, allestite con grande semplicità, all’interno di uno spazio continuo ‘non finito’ di cemento e mattoni a vista.

Dentro quel brutale interno si è rivelata potentemente la forza del segno di Lionni, la capacità della sua pittura di riverberare lo spazio, di entrare in sintonia e in proficua concorrenza con esso, invaderlo con il groviglio delle sue linee e il sempre più fitto sistema di sovrapposizioni e incroci dei segni, al limite della loro definitiva cancellazione. La mostra ha messo in luce quanto il linguaggio della pittura di Pippo Lionni fosse in sintonia con quello dell’architettura, ; allo stesso tempo ha messo in evidenza anche un limite di orizzonte.
Come spesso accade la mostra è stata l’occasione per rivedere criticamente il proprio lavoro, chiudere una fase ed imboccarne un’altra. In quel momento si è rivelata più come percezione di un dubbio che messa a fuoco di un nuovo percorso.
La risposta è venuta, con fatica e sofferenza, durante il successivo impegno che l’artista ha preso, con la P! Gallery di New York.

Una parte della mostra era basata sull’esperimento di innescare un processo di collaborazione condiviso con Qasim Naqvi, compositore di musica contemporanea, in modo da sollecitare tra i due artisti una forma di azione-reazione, un’influenza reciprocamente esercitata attraverso i propri diversi linguaggi .
Un incontro ,sulla carta, di sicuro successo soprattutto in considerazione della già forte contiguità del lavoro di Pippo con la musica e di quanto, nel suo lavoro, il procedere senza un progetto precostituito, ma seguendo una traccia continuamente arricchita di variazioni e improvvisazioni, sia affine alla pratica della musica jazz.
Ma all’inizio questo rapporto diretto con la musica di Naqvi, un legame imposto più che liberamente cercato, non ha dato buoni frutti.

Si è materializzato improvvisamente, in quel momento, qualcosa che era già stato percepito e che ha assunto la sgradita figura della crisi. Normalmente la crisi, di qualsiasi specie e natura essa sia, viene vissuta come un fallimento, un angoscioso salto nel vuoto, la prova di una personale débacle, un vicolo cieco. Ma il vero, originale significato della parola greca krisys è un altro: vuol dire, in realtà, separazione e scelta, l’equivalente del latino de-cidere, tagliare e quindi scegliere, usando capacità di giudizio e discernimento. In questo senso la crisi diventa addirittura un momento di chiarezza, l’opportunità di fare un passo avanti e crescere; può addirittura diventare lo stato permanente della continua ricerca di nuove realtà, nuove strade da percorrere.

Proseguendo su questo cammino è accaduto che Lionni abbia imboccato una strada diversa e abbia iniziato a seguire una nuova linea di ricerca. Il suo rapporto con la musica, da sempre fondamentale, dopo il “Chronology show” di New York ha subìto una decisiva trasformazione, in quanto è passato da uno stato di scelta libera, in evidente coerenza con il proprio linguaggio artistico, ad uno di reazione, quasi di sfida, di risposta dialettica che ha inciso, parzialmente trasformandolo, sul modo stesso di fare pittura. Sono cambiati, tra le altre cose, gli strumenti dell’azione e, insieme, le modalità di colpire tracciare segnare la tela.

L’incontro con la musica di Naqvi, vissuto in forma del tutto libera e indipendente ha provocato risposte inaspettate che hanno lasciato non solo tracce visive sulla tela, ma hanno anche liberato sonorità nello spazio: singoli colpi sordi, battiti in sequenza ritmata, rallentamenti e accelerazioni, stridori striscianti che hanno creato, dall’interno, una particolare struttura musicale che si è stratificata nell’aria, allo stesso modo in cui i segni della pittura si sono accumulati sulla tela, divenuta un enorme misterioso spartito musicale.
Il nuovo percorso intrapreso è lungo e difficile ma anche entusiasmante: il dialogo tra musica e pittura può essere fecondo e ricco di variabilità e intrecci, soprattutto se, come in questo caso, la pittura ha una sua sonorità e la musica trova la strada per trasformarsi in linguaggio visivo.

E’ stato certamente così per Pippo Lionni che ha intrapreso un viaggio travagliato ma ricco di novità e potenziali opportunità; un viaggio vero perché itinerante tra luoghi e mete diverse, Parigi, Siena, Porcignano, New York, Gaiole in Chianti, ma ancora di più un viaggio mentale che lo ha aiutato a togliere vecchie incrostazioni, pericolosi appagamenti, insidiosi formalismi. Un bagno purificatore e rigenerante aiutato anche da una straordinaria esperienza nata in margine alla mostra “Big Paintings” di Siena e sviluppatasi negli otto mesi successivi, fino all’ultima esposizione “Abstraction in Action-The Residency” allestita nelle Vecchie Cantine di Gaiole in Chianti.

Con la mostra senese infatti si era avviato un vero e proprio workshop sull’astrazione nell’arte che ha coinvolto gli alunni di due classi della Scuola elementare di Gaiole . Trentacinque bambini che hanno seguito continuamente, insieme alle loro insegnanti, il lavoro di Pippo, visitando le sue mostre, il suo studio, le Vecchie Cantine dove egli stava lavorando alla sua tela più grande, lunga oltre sette metri, la “20160518 43°11°”.
Ma non solo. Tra ottobre 2015 e maggio 2016 si è sviluppato tra l’artista e quei bambini un continuo, intenso lavoro di approfondimento, basato su un paritario scambio di opinioni, sulla collettiva e diretta partecipazione alle diverse fasi del lavoro in corso, con la straordinaria acquisizione della coscienza da parte degli alunni di cosa significhi esprimersi con un linguaggio, prima considerato inconsueto e improprio e, piano piano, orgogliosamente rivendicato come il risultato di una personale, legittima visione del mondo.
Una delle più famose e tramandate frasi di Picasso recita all’incirca così: “Ho impiegato tutta la vita per imparare a disegnare come un bambino”.

L’esperienza toscana di Lionni ha lo stesso valore perché con il completo svelamento dei meccanismi del suo modo di fare arte, rendendo accessibili alla comprensione di quei bambini le tante ragioni delle sue azioni artistiche, ma anche i suoi inevitabili smarrimenti, i continui dubbi, le famigerate crisi, ha sollecitato in profondità la più pura e autentica vena artistica che l’essere umano possegga, quella innocente, disinteressata, priva di sovrastrutture, dell’età infantile.
Questo risultato è stato ottenuto grazie soprattutto alla partecipazione diretta e al collettivo coinvolgimento dei gruppi scolastici nell’azione artistica , non nella creazione del singolo prodotto ma nella messa in moto di un processo capace di stimolare l’immaginazione e la progettualità, accendere emozioni e passioni, aiutare a superare le possibili delusioni, gli errori, gli inevitabili punti morti. Tracciare e percorrere un così complesso cammino insegna a prendere confidenza con quanto sta elaborando la mente e concretizzando la mano, ma soprattutto aiuta a credere che quanto si è immaginato abbia ragione e diritto di esistere.

I bambini -e le loro maestre- si sono appropriati, attraverso la loro partecipazione diretta, del lavoro di Lionni, lo hanno compreso, hanno allargato ad altri le loro acquisizioni, hanno prodotto lavoro artistico secondo un loro personale e comune percorso creativo, hanno affermato una loro propria concezione astratta della realtà.

Non si è trattato di un percorso facile, è stato necessario anche un lavoro teorico di ricerca disciplinare, si sono affrontati capitoli della storia dell’arte che normalmente, nelle programmazioni scolastiche, restano inesplorati e lontani. Non conoscere le diverse espressioni dell’arte contemporanea, significa quasi sempre darne un giudizio aprioristico e inevitabilmente rifiutarle. Ma non si è trattato solo di un approccio teorico, praticato esclusivamente attraverso lo studio dei testi: in questo modo si sarebbe raggiunto un livello ancora una volta astratto nella conoscenza dell’arte non figurativa. La novità del metodo è stato il superamento della conoscenza manualistica e la sua trasformazione in partecipazione diretta al processo di lavoro di un artista presente, una persona reale, qualcuno che sta preparando la propria mostra, con cui discutere ogni scelta, chiedendo spiegazioni e dialogando attraverso le proprie capacità critiche, per poi intervenire aiutandolo a montare e smontare le opere, divenendo tramite e guida di quel lavoro presso gli altri, e così via partecipando.
Vista dalla visuale di Lionni l’esperienza vissuta è stata altrettanto straordinaria, perché ha aggiunto senso e valore alla sua opera, ha allargato i confini e reso più completo il processo della sua elaborazione. Tra le altre, il lavoro svolto ha avuto la conseguenza di ridurre la distanza culturale tra gruppi di persone non abituate a trattare certe forme espressive come opere d’arte e quindi è servita ad abbattere tabù e luoghi comuni di forte e antica resistenza.

Pippo Lionni e i bambini di Gaiole -ma dopo l’esperienza partecipativa di “Abstraction in action” dobbiamo riferirci all’intera comunità di quel luogo- continueranno senza interruzioni il loro laboratorio puntando sulla sperimentazione visiva dell’astrazione nella fotografia, un tema che viaggia in parallelo con quello precedentemente affrontato e che permette di lavorare con gli strumenti quotidiani della riproduzione delle immagini ormai alla portata di tutti, camere digitali, tablet, smartphone etc.; un interesse specifico portato sull'immagine come forma astratta, sul valore della critica nel processo e, se possibile, sul progetto di allestimento.

Con l’energia pulita delle loro menti quei bambini hanno già capito che l’immagine astratta è parte della realtà e che più si entra in profondità nel mondo reale, nella sua struttura e nelle sue forme più segrete e nascoste, più si finisce per incontrare una realtà diversa e inattesa che parla un altro linguaggio. Saranno proprio loro a farlo capire agli adulti delle generazioni precedenti.

CARLO NEPI, Siena, 21 giugno 2016



JAZZMAN PAINTERMAN

Attraverso l’osservazione dei gesti che Pippo Lionni compie durante la costruzione dei suoi quadri, si acquisiscono elementi fondamentali per la comprensione della sua pittura. Egli sembra iniziare un rapporto fisico, quasi corporale, con quel supporto bianco che attende i suoi segni e pare sfidarlo con l’abisso del nulla. C’è qualcosa di rituale nel complesso di movimenti che aggrediscono lo spazio, ma anche lo accarezzano, scivolando sul piano, in una danza violenta, ma anche sensuale. Il gesto appare fluido e continuo, ma necessita di forza e di contrasto: il supporto deve stare a terra o contro una tavola dura. Una tela montata sul telaio non potrebbe sostenere quella pressione, non produrrebbe lo stesso risultato. La mente entra in diretto contatto con la carta attraverso il braccio-che-spinge-la-mano-che-tiene-la-spatola e lascia il segno che, in quel preciso istante, sente di dover rilasciare. Non esiste un bozzetto dal quale partire, un progetto razionale pensato in termini geometrici da scaricare nella realtà cartesiana. Tutto muove dal profondo, dall’emozione, verrebbe di dire dall’inconscio. Quando lavora Lionni spara la musica che ama al volume che gli consente di pensare, ma anche s-ragionare. Non è un aspetto secondario nel suo lavoro. La musica c’entra, e molto. E c’entra un relativo stato di concentrato stordimento.

“Io non lavoro sulla traccia di disegni o abbozzi (…) la mia pittura è immediata (…) il metodo di dipingere è il naturale manifestarsi di un bisogno. Io voglio esprimere i miei sentimenti, non illustrarli. La tecnica è soltanto un mezzo per raggiungere questo risultato. Già mentre dipingo, ho dell’opera una nozione generale. Io posso controllare il fluire della pittura. In essa non vi è nulla di casuale, così come non vi è né principio né fine”. “La mia pittura non viene dal cavalletto. Difficilmente io tendo la mia tela prima di dipingere. Preferisco fissarla senza tenderla su una solida parete o sul pavimento. Sul pavimento mi trovo maggiormente a mio agio. Più vicino alla pittura, parte di essa, perché così posso girarle attorno, lavorare da tutti e quattro i lati e letteralmente essere in essa “. Sono parole di Jackson Pollock ma potrebbero essere fatte proprie da Lionni, tale è la vicinanza, se non altro di atteggiamento, del processo creativo tra i due artisti, che peraltro, nel merito dei contenuti, partono-da e proseguono-per strade completamente diverse.

Non ho personalmente alcuna inclinazione per quella tendenza entomologica di incasellare gli artisti all’interno di tendenze, correnti e generici –ismi, ma dovessi collocare Pippo Lionni in una scatola, lo appoggerei sul coperchio di quella che porta il titolo di Scuola di New York, configurabile davvero come una scatola vuota nella quale si erano raccolti artisti assai diversi tra loro ma uniti dagli stessi dubbi, gli stessi quesiti, da uno stesso disordine ideologico; una sorta di somiglianza culturale difficile da definire, addirittura da nominare, al punto da portare De Kooning a dichiarare “Darci un nome è un’iniziativa davvero disastrosa”. Lionni starebbe molto bene in quel consesso, con Gottlieb Pollock Newman Motherwell Rothko etc., che non teorizzavano sull’arte ma la praticavano con una sorta di avventurosa innocenza, quasi spettatori della loro stessa creazione.

Anche Pippo Lionni, a mio parere, si muove con la stessa voglia di meravigliarsi, di essere colto di sorpresa da ciò che sta avvenendo in quel campo di forze nel quale sta immettendo tutta la sua energia. L’azione pittorica, così come un pezzo di musica jazz ha un preciso inizio e poi va avanti sulla base di un canovaccio attorno al quale si intrecciano variazioni e improvvisazioni, note lunghe estenuate e segmenti di note sincopate, swing e sonorità astratte.
Nella pittura di Lionni il gesto produce tratti che si differenziano per spessore, lunghezza, ritmicità delle fratture, intensità delle trasparenze, ma ogni aggiunta nasce dal tratto precedente e prefigura quello seguente, in un accordo tra la mente, il corpo e lo spazio, in un’armonia che prosegue fino alla fine senza bisogno di seguire un piano precostituito e che potrebbe non avere termine, giungendo alla completa cancellazione del campo.
Lionni ha fatto grafica, da professionista, e questo si avverte dalla pulizia del segno, dalla nettezza dei tracciati ,dai rapporti tra pieni e vuoti, dalla complessiva gestione compositiva dell’immagine.
Il suo linguaggio è intriso di architettura e città, respira l’aria delle metropoli e delle metropolitane, di quelle realtà riproduce gli incroci, gli innesti, le sovrapposizioni, i disassamenti, le ampie curvature.
Tutto nella costruzione linguistica della pittura di Lionni ci riporta all’architettura, in primo luogo la fisicità dello spazio che si percepisce nei suoi quadri, uno spazio che viene percorso, plasmato e continuamente attraversato da vettori pittorici che hanno la fisica consistenza di un tessuto edilizio, anzi la fitta configurazione di una trama urbana. Ma anche dal punto di vista figurativo, la corposa consistenza dei segni, il loro andamento sulla superficie e l’intersecazione dei tracciati nella realtà spaziale, sembrano obbedire allo stesso codice diagrammatico che, pur in modo diverso, domina il linguaggio grafico-architettonico.
Si ritrova, vagando all’interno di queste carte, il grande sistema universale della comunicazione urbana, l’idioma con il quale la Comunità detta regole a se stessa e costruisce la grande avventura della costruzione delle città.
Il sovraccarico dei segni e dei loro sottesi significati fanno emergere l’idea di un caos che, anch’esso, è parte di quella realtà iperurbana che pare trascinarsi verso la catastrofe dell’annullamento e, pittoricamente, ci riporta al punto di partenza.

Carlo Nepi, Siena, 05/2015
* Bryan Robertson "Jackson Pollock" , Thames and Hudson limited, 1960
** Jackson Pollock, La mia pittura, "Possibilities" n°1, N.Y. Inverno 1947-48



FRACTURED SPACE

“Poiché il jazz acquisisce la sua stessa vitalità nell'improvvisare sui materiali tradizionali, il jazzista deve perdere la propria identità mentre la trova.” Ralph Ellison

“Capisco perfettamente cio che intendi: Adesso ti dico perché sei qui. Sei qui perché intuisci qualcosa che non riesci a spiegarti. Senti solo che c’è. È tutta la vita che hai la sensazione che ci sia qualcosa che non quadra nel mondo (..) É un chiodo fisso nel cervello, da diventarci matto” (Morpheus in Matrix)

Uscire da sé stessi significa acquisire la costante e reiterata consapevolezza della propria alterità, “car je est un autre” scrive Rimbaud nella lettera a Paul Demeny, nel 1871, molti anni prima della nascita della psicanalisi. “I don’t recognize the work I did the day before, I see myself outside myself and it's not me” è un’esperienza che Pippo Lionni prova ogni qualvolta si dispone all’atto creativo, sfuggendo la progettualità in una sorta di trance, favorita dall’ascolto incessante della musica che accompagna i suoi gesti, che lo porta a non riconoscere le opere compiute il giorno prima. La musica, specie quella jazz, ma anche quella dai toni poetici ed ossessivi di Laurie Anderson, suscita tensione, e su quei ritmi pressanti prendono vita le grandi strutture geometriche, nelle quali i segni iconici che frammentano lo spazio, lo costituiscono e lo ricreano grazie ad una tessitura pittorica in cui la materia si addensa oppure si assottiglia fino alla trasparenza e si sovrappone stratificandosi in alcuni punti, laddove le linee, stese con la spatola metallica, curvano e si intersecano, scavando leggermente la superficie della carta, dando vita ad un effetto di sottile vibrazione dei piani, che la superficie della tela non consentirebbe, ma poi si interrompono bruscamente solo perché il foglio finisce e noi possiamo seguirne con la mente la fuga in un altrove.
Le opere di Lionni, che fioriscono da gesti ampi compiuti con movimenti danzanti, recano impressa la profonda vitalità della pittura americana degli anni dell’espressionismo astratto: una pittura che se un lato era debitrice del respiro epico dei grandi paesaggi ottocenteschi, di Frederic Edwin Church, di Thomas Cole, dall’altro fu imprescindibile tappa per lo sviluppo della pratica performativa dei decenni successivi. Newyorkese di nascita, francese di adozione, e molto legato all’Italia dove ha anche uno studio in Toscana, Lionni ha certo impresso nel suo DNA questa vena statunitense, che si conferma anche nell’interesse per lo sciamanesimo, dai cui riti fu attratto, com’è noto, anche Jackson Pollock.
Ma la dimensione esistenziale sofferta, intricata, consapevole della relatività del presente, dopo i grandi traumi della seconda guerra mondiale, ch’era nei dripping di Pollock o nelle tele di Franz Kline, appare da Lionni filtrata, rimeditata, risucchiata da visioni e da una sensibilità contemporanea, da tracce che, pur nella loro sembianza eruttiva, nella casualità delle traiettorie, nell’ossessività delle vibrazioni, svelano tuttavia, in sottofondo, una matrice più essenziale e profondamente ancorata all’oggi. Infatti, se a prima vista le sgocciolature rimaste accanto alle linee dei dipinti di Lionni, potrebbero suggerire quelle presenti nelle opere della color field painting (pensiamo a Morris Louis o alle sbavature della linea nell’ Onement di Barnett Newman, pause silenti dopo la frenesia dell’action painting), un senso di maggior prosciugamento ci guida verso un’altra fonte, evocandoci semmai le traiettorie casuali del cursore - eppur guidate da numeri – che riempivano lo schermo dei computer negli anni Novanta nei momenti di inattività, ma anche le sequenze numeriche che colavano come pioggia in alcune scene del film Matrix (1999).

I segni di Lionni possiedono quindi un’asciuttezza simbolica che ha origini esterne alla pittura e svelano la familiarità dell’artista col mondo della grafica, dell’animazione e del digitale, campi da lui ampiamente esplorati e sperimentati con numerosi progetti compiuti in anni precedenti, tesi ad interrogare la simbologia legata al linguaggio dei segni, e risalire ai linguaggi archetipici, a lavorare anche sulle icone più elementari della società contemporanea (ad esempio i segni che indicano il maschile ed il femminile nei luoghi pubblici), per capire come segni semplici possano alludere a significati diversi, e quindi introducendo nella sua ricerca quell’interesse per la semantica che è proprio della cultura francese, cui Lionni è certo stato sensibile.
La contaminazione dei linguaggi e degli ambiti espressivi che Pippo riversa, seppur trascesa nella violenza del gesto pittorico, appare più chiara se si confrontano ad esempio le sue tele con la serie Barhan, di Andreas Gursky, che nella decostruzione delle fotografie del circuito automobilistico e nella loro rielaborazione digitale, ricrea immagini ispirate ai principi stilistici della pittura, giungendo ad una sorta di estetica astrazione del reale. Tuttavia Lionni non rinuncia alla vitalità turbolenta e sorgiva dell’atto creativo, in cui sembra manifestarsi la sua lotta contro la noia, l’apatia, la mancanza di dignità del nostro mondo contemporaneo. Pur nella sua “perdita d’innocenza”, quindi priva dello slancio incondizionato e debordante dell’ action painting, la pittura di Lionni continua ad esprimere valori di rivolta nei confronti di una società che, anziché evolversi, pare tornare alla legge della sopravvivenza del più forte, seguendo presunti valori etici, contrari ai desideri primari dell’umanità, e alla bellezza. Avere un artista vicino “could be a pain in the ass, as well as a mess” , afferma Lionni: e ci ricorda che in Svezia, dove ha dipinto nei mesi scorsi, usando come studio la cantina di Fredrik e Marie Westin a Gustavsberg, “artista” si dice "konstnär", parola assai vicina a "konstigt", confusione. Dallo studio il suo intervento si è esteso poi fino a coinvolgere l’intera casa in un progetto unitario.
La mostra nel grande spazio di Prato riunisce lavori recenti, concepiti soprattutto nello studio in Toscana, vicino a Radda in Chianti; una campagna che non ha nulla di pittoresco, ma tende anzi, nella sua maestosa bellezza, a quella astrazione formale che fu cara ai maestri antichi ed è ora del tutto consona ad accompagnare la monumentalità cui si indirizza la ricerca di Lionni. Domina qui il colore nero e l’artista ne sfrutta, grazie alla pressione della spatola sulla carta, le mille variazioni di toni, dal grigio più freddo e opaco al nero più intenso, profondo, lucido ed aggressivo, che evoca il bitume fresco ed accentua il rapporto di quelle opere con un manufatto industriale. Accanto ai grandi fogli sono invece altri di dimensioni inferiori, lunghi e stretti, in cui al nero si affiancano l’arancio, il verde o anche il bianco. Ma quei diagrammi, che si sviluppano orizzontalmente, simili a partiture musicali, sono spesso interrotti, turbati, disturbati da altri segni più sottili, come graffi, creati usando un pezzo di legno imbevuto nel colore, ad accentuare quell’elemento di manualità sempre presente nell’arte di Lionni, che ben coesiste e contrasta con le suggestioni del mondo dell’industria e del digitale.
Perché in fondo, come scriveva Walter Benjamin, “arte è strigliare la realtà contropelo”, ed è forse l’unica via di salvezza per superare e demonizzare forme di depressione cronica, ed arginare quella follia autodistruttiva, testimoniata dalle molte offese alla vita del nostro pianeta, che l’uomo contemporaneo non cessa di perpetrare.

Laura Lombardi, Firenze 2014



SANS TITRE

…Seul le poète, seul l'artiste transforme des pictogrammes "informatives et factuelles" en échos de sa liberté intérieure. Il donne libre court à son inspiration pour laisser sourdre l'ordre poétique de notre désordre vital. Il réinvente des codes barre, pour mieux garder le cap sur la vie qui s'écrit dans l'union des contraires et la lutte de ses complicités. Je connais un artiste qui a travaillé la richesse de ses territoires intérieurs à l'aide de cette signalétique énigmatique et poétique d'une puissance phénoménale…

…Pippo Lionni dans son expression artistique est passé de la poétique graphique du pictogramme à l'essentialité de la ligne. Cette trajectoire pointe le chemin qu'il existe de la tête au cœur, de l'encéphale au ventre. L'électrochoc émotionnel de la représentation graphique de la "tension" est un décryptage intellectuel. C'est une sensation physique avec concordance mentale.

Mais le "ventre" à des raisons que la tête ignore. Pippo Lionni dans sa démarche de poursuivre son chemin artistique au cœur de la forêt à transcender le signifiant du graphique pour l'élever au rang du geste essentiel. Le cri du ventre ça existe. "Parler avec ses tripes" ça signifie dire l'essentiel avec une économie de moyens pour mieux communiquer avec notre être profond. C'est oublier la signification intellectuelle pour retrouver l'harmonie désorganisée d'une vérité première. C'est cette quête qui pousse toujours plus loin l'artiste sur ses chemins intérieurs pour trouver la clairière où il peut rire à plein poumons la vie qui pétille, tracer en pleins gestes une ligne entre la terre et le ciel.

Cette liberté du geste lâché, comme un échos de l'intériorité primale et essentielle de l'artiste, c'est ce que j'ai ressenti quand j'ai vu l'expo de Pippo Lionni à Prato, Italie. Ce cri évoque nos propres ressentis étouffés en tant que spectateurs. Ça nous prend au ventre et c'est bien légitime.

En voyant ces œuvres sur papiers on n'étend encore les crissements de spatule sur le canson et la vélocité de la lame qui s'échappe de la feuille. On imagine l'artiste dans une danse rythmique et spontanée, retenue et véloce, lâcher toute sa force vive pour nous transmettre l'énergie d'une poésie essentielle et personnelle.

Pascal Pilate, Montreuil, 2014



PIPPO LIONNI : BODY AND SOUL

Regarder Pippo Lionni parler de sa peinture, c’est regarder un corps en mouvement, avec ses mains qui tracent dans l’air les directions, la tension d’une ligne, ses bras qui expriment les tempos, les rythmes des traits, son torse qui se tord et qui revit le souvenir d’une trace, son buste qui accompagne la tension des épaules pour évoquer des aplats qu’il pousse, qu’il tire, qu’il dirige.
C’est regarder la puissance et la grâce de son corps en mouvement capable d’évoquer les contrastes, les transparences, les opacités, les ruptures, les limites et les vides dans sa peinture.
Pippo Lionni vit sa peinture elle l’anime, l’électrise, le met dans une transe hors du temps au rythme de la musique, avec ses mouvements, ses outils, sa matière.
Il chante, s’agite, inscrit dans son corps et sur ses supports les ruptures, les accélérations, les silences, les respirations avec son énergie, sa vitalité, sa puissance.

C’est un engagement du corps et de l’âme.

Avec cet engagement de l’âme, la peinture l’envahit, l’écrase et lui échappe parfois. Il aime ce rapport de force, cette tension, se perdre dans cette fusion, cette complicité.
Il lui faut parfois rompre pour pouvoir à nouveau se l’approprier, la voir autrement, lui parler autrement, se laisser surprendre par les accidents, l’imprévu.
Dans la solitude de ses ateliers, jour après jour, il exulte face à cette extrême liberté, avec toujours le plaisir de se laisser emporter dans les pertes de repères, dans les mises en danger.
Pippo Lionni n’en sort jamais indemne mais sa peinture est là, présente, imposante, témoin de son extase, de ses rebonds, de son abandon.

Valerie Grondin, Paris 2014



DANS L'ESPACE PUBLIC, ORDRE OU DESOBEISSANCE ?

Designer-graphiste pendant plus de trente ans, après des études de philosophie et de mathématiques, Pippo Lionni se consacre désormais à la peinture et à la vidéo. Ses films d’animation sont projetés dans l’espace public des grandes capitales. Ils mettent en relief l’ambiguïté de nos mouvements engagés dans l’ordonnance ou la désobéissance.

Si ce designer s’investit totalement dans l’art, c’est parce qu’il ne sert à rien d’autre qu’à remettre les choses en question et parce que « Le design était beaucoup plus intéressant quand il n’était pas à la mode. L’art ne sert à rien donc sert à tout ! ». Pour l’essentiel, son travail est une recherche de sens. Il est intéressé par le conflit et l’hypocrisie. Pippo Lionni est profondément un homme de la ville, cette « zone d’intensité », « lieu des contradictions ». La ville le stimule par la confrontation qu’elle révèle entre l’organisé et le non-organisé. Cela l’incite à jouer avec la signalétique, couramment utilisée en milieu urbain. Ses vidéos s’inscrivent dans le prolongement de son travail graphique sur les Facts of life qu’il poursuit depuis 1998. Il interpelle notre perception grâce au détournement de pictogrammes, une satire du fait social. Il traite de la frénésie, du non-dit et de la pauvreté, cela d’une manière positive et critique. « Chercher des solutions fait partie de la vie humaine et cela passe, entre autres, par le design. Les master-plans apportent-ils pour autant des solutions ? Je ne crois pas. »

Parmi la vingtaine de films d’animation qu’il a réalisés, certains ont été présentés en 2010 à Amsterdam (Caszuidas, en 2010), en septembre 2011 à New-York (en septembre sur The big screen Plaza à Chelsea), ainsi qu’à Melbourne. Le dernier, en cours d’élaboration, est sur le thème des réfugiés. La ville défend son plan mais les gens bougent. L’immigration vient perturber la rationalisation de la vie occidentale : elle apporte de la diversification et donc de la richesse ».

L’animation est un moyen de jouer sur la dualité entre abstraction et réalité fictive, car « avec l’animation, on se demande toujours « what’s happen next ?». L’ambiguïté de ses vidéos apparaît nettement lorsqu’elles sont confrontées à l’espace public, et non plus seulement exposées dans les lieux attendus de l’art contemporain. « J’utilise des signes évidents pour évoquer des choses qui ne sont pas évidentes ». La ville s’affichant comme l’empire des signes. Et puisque la ville s’offre à tous, l’art exposé vient questionner les badauds sur le sens profond de la ville durable en soulevant ces questions : « Comment considérer la vie sur la surface de la terre et quelles sont les relations entre les êtres humains ? »

En 2010, le film Freneticology, était réalisé à partir de codes informatiques pour une création aléatoire sur le thème des comportements. « Dans toute situation, c’est l’élément perturbateur non-maîtrisable qui créé de l’intérêt ».

Les Facts of life ont été également déclinés sous la forme de badges. « Ce medium est intéressant car il est anti-écran, pas cher, accessible à tous, très fort et très urbain. Il délivre un message à travers une image statique. Le porter est d’une certaine manière un acte de désobéissance ».Toutes ses productions autour du signe nous incitent à réfléchir et à ne plus être seulement qu’un réceptacle à images.

Les espaces urbains qu’il affectionne particulièrement sont les moins aménagés. Ayant passé son enfance à New-York, le bâti abandonné ou détourné fait partie de sa culture. Grand marcheur, il considère aujourd’hui que « Paris est une ville assiégée par la frénésie du transport individuel, comme le portable (beaucoup de blah blah pour très peu de communication). Le plus vite ne correspondant pas forcément a plus de biens… Reste à savoir quand la ville se retrouve totalement saturée ! ». Et lorsque Pippo Lionni quitte Paris ou New-York, il recherche des paysages où l’intensité se montre aussi présente : sur les océans ou au cœur des montagnes.

Carine Merlino, Mook La Ville créatrice de ressources, Editions Autrement, Novembre 2011



RE-ANIMATION Pippo Lionni à Amsterdam

Pippo Lionni publie et expose ses « Facts of Life » depuis 1998. De la collection des petits livrets fluorescents aux installations dans des galeries d’art, il détourne des pictogrammes pour leur donner vie, non sans humour, en une satire du fait social. Dans ce sens, s’opère un incessant jeu de va et vient narratif où l’animation offre un autre niveau de lecture. « D’ordinaire, je travaille sur mesure en fonction de l’espace alloué à l’exposition, je module le temps de confrontation dans un contexte donné. L’animation est pour moi le moyen de jouer sur la dualité entre abstraction et fiction : de loin on ne perçoit qu’une dynamique visuelle de signes en mouvement, de près on se rend compte que ces signes répondent à leur propre cycle de vie, selon des algorithmes aléatoires, combinatoires et organiques. Cette relation entre le temps et la distance confère une nouvelle dimension à la série « Facts of Life ». Avec l’animation, on se demande toujours « what’s happen next ? » explique Pippo Lionni.

Que peut-il donc encore se passer avec des pictogrammes ? Forme de langage universel, normalisé. Ils balisent les routes de notre quotidien perçus rapidement et sans ambiguïté. Sur eux repose un confort de lecture, d’usage et d’action. Ayant force de symboles, ils sont une représentation graphique schématique, un dessin figuratif stylisé fonctionnant comme le signe d’une langue écrite et qui ne se transcrit pas à l’oral. Ils servent généralement à la signalétique et constituent une alternative à une signalisation multilingue pour décrire une situation, prescrire un comportement déterminé, indiquer un danger. Ces symboles se font réglementation publiée au Journal Officiel. Cette production contribue à une soumission pragmatique que vient réveiller Pippo Lionni, ayant recours à l’évident, au stéréotype pour aborder l’énigmatique et la diversité. Graphiste, il maîtrise ces outils de communication dans le cadre de la commande Design. Artiste, Pippo Lionni manipule ces outils et conçoit son œuvre comme un univers parallèle de formes et de signes agencés par le moyen d’une grammaire spécifique à double fond qui nous entraîne, par effet miroir, à entrer dans sa propre sémiologie.

La diffusion sur un écran géant constitue un passage sur la crête pour Pippo Lionni où son œuvre retrouve le chemin de l’espace public. Au delà du déplacement de contexte de monstration, la sélection de ces 8 films d’animation pour la Média Façade d’Amsterdam, pourrait tout faire basculer. Elle met Pippo Lionni en danger. Qui du graphiste ou de l’artiste va prendre le dessus ? Ré-Animation… Être réanimé, c’est se trouver entre la vie et la mort, purgatoire terrestre où l’on mise sur une seconde chance, une seconde vie. Ces animations sont ainsi exposées à l’aléatoire d’une programmation commerciale, au flux des passants, au hasard de la vie. Animée dans les lieux attendus de l’art contemporain, le détournement opérait de soi. Confrontée à l’espace public, l’ambiguïté pointe… Oserais-je dire : enfin !

De sa dualité propre de graphiste et d’artiste, répond en écho toute une dialectique où se confrontent abstraction et figuration, macro et microcosme, identité et altérité, légalité et légitimité, inné et acquis, passivité et l’activisme, déterminisme et libre arbitre, commande et liberté de création… A l’instar d’Hegel pour qui « Une chose n'est vivante que pour autant qu'elle renferme une contradiction et possède la force de l'embrasser et de la soutenir », il s’engage dans une sorte de provocation, qui vient utiliser les armes de l’adversaires pour faire exploser une bombe générative de pensée, non déterminée, « donc perverse ». Opérant comme un acte de contre propagande, cette ré-animation vient à faire palpiter de manière plus vibrante encore la dimension politique de son art au cœur de la cité.

Jouant du caractère réversible des images et de la polysémie de ces codes « ready-made » , il en appelle à une introspection, pour une ode aux sens de la condition humaine et se pose en artiste de vérité toute Hegelienne soit-elle, en forme de pirouette cérébrale. Pas si éloigné que cela des préoccupations du Street Art, Pippo Lionni vous en conjure : « La vérité est en vous, trouvez-la ! »

Sarah Carrière-Chardon, 2009



LA NORMALITÉ MISE À MAL

Outils de communication censés dicter les règles et usages de notre société, les codes de l’artiste Pippo Lionni – symboles signalétiques pour la plupart – nous proposent une relecture du monde qui nous entoure. Chargés d’humour caustique, d’émotion, de poésie, ils poussent à la réflexion ou à la dissidence. Mieux, ils confèrent à l’espaceplan de nouvelles dimensions.

À peine assis, Pippo Lionni – artiste d’origine new-yorkaise installé en France depuis plus de quinze ans – se lance avec passion dans un monologue, préambule à une discussion de fond sur la signalétique et le sens caché des installations qu’il met en scène. « La richesse et l’ambiguïté des pictogrammes et des idéogrammes, constituent la base d’un langage abstrait. Aussi, je m’attache à les faire cohabiter, à confronter des signes pour donner naissance à un discours symbolique », dit-il.

Exposant dans des galeries ou musées autant qu’il intervient dans des livres, Pippo joue avec ses pictogrammes pour mieux interpeller le visiteur : « Ils symbolisent l’être dans sa plus simple expression, ainsi chacun peut s’y identifier. » Dans l’installation intitulée AWOL – Absent WithOut Leave, autrement dit « déserteur » –, des personnages aux contours robotiques gisent sur le sol. Mise en place chez ArtCurial pendant les premières semaines de la guerre du Golfe, elle imposait au visiteur d’enjamber, de piétiner les morts pour accéder à la salle des ventes. Mis en regard d’une situation géopolitique complexe, le pictogramme prenait un sens nouveau : « Le pictogramme est un porte-parole idéal car chacun de ces êtres stylisés, réduits à leur plus simple contour, nous ressemble : le Robot suggère notre fascination pour l’automatisation ; le Pixel, la virtualisation ; le Fragment, notre autodestruction. Ce faisant, ils traduisent une nouvelle relation à l’espace : une projection de soi, avec force et émotion. Comme s’il était donné au spectateur de se confondre avec l’espace-plan, de s’y plonger corps et âme », explique-t-il.

Une rencontre avec l’oeuvre de Pippo Lionni ne peut donc qu’être frontale, et engendrer des espaces intérieurs pluridimensionnels. Et c’est précisément ce pour quoi l’on fait appel à lui : « On me demande de créer des oeuvres spécifiques, qui s’adaptent à des lieux atypiques et les révèlent. Dans certains cas, il s’agit d’imaginer un usage contre-fonctionnel ; de contrebalancer la normalité, afin de créer du sens, un événement inattendu. Je travaille sur la mise en relation entre des signes, symboles et abstractions qui cherchent la limite entre l’évidence et la non-évidence. Si toutes mes oeuvres véhiculent un message politique, social voire géopolitique, elles ne sont pas toujours compréhensibles de prime abord. Tantôt le message est unique, tantôt il est diffus et multiple, lisible sur plusieurs strates. Ce que je cherche avant tout est une confrontation frontale à l’espace, une explosion des dimensions, une recherche de densité et de fragmentation virtuelle du plan. À bien y réfléchir, pourquoi met-on de l’art dans certains espaces ? L’intervention artistique va au-delà de l’espace existant pour lui conférer une nouvelle dimension : la signalétique vient complémenter l’architecture, lui donner une valeur et apporter une orientation à l’espace. » Intarissable sur ce point, il cite l’exemple de l’artiste francoaméricaine Sheila Hicks qui travaille avec les architectes pour tisser et créer des oeuvres textiles sur mesure. Et d’ajouter : « Les architectes prétendent créer l’espace ; pour autant, quand un artiste vient tordre le cou aux perspectives, créer un conflit spatial, le travail sur les lieux s’en trouve instantanément renforcé. »

Produits en vinyle autocollant, les « Fragments » de Pippo Lionni s’apposent sur un support – mur, carrosserie de voiture, table, tasse, casque de chantier, etc. – comme un gant, une seconde peau. Catalyseurs d’espaces et de dimensions supplémentaires, ils dissèquent le plan, échappent au cadre normé d’une galerie ou d’un lieu de vie. « Quand j’interviens sur un mur, mon oeuvre se confond avec lui : elle s’adapte, se plaque, le recouvre, coule en surface, passe à travers les moulures », précise-t-il. On pourrait même être tenté de dire qu’il le tatoue sans limite, à l’aide d’aplats anguleux, de couleurs vives et criardes, presque brutales. Se pose alors la question de l’élément décoratif : l’artiste tiendrait-il un discours de décorateur d’intérieur ? « Il ne s’agit pas de cohérence ici mais au contraire de tenir une position subversive. J’assume la radicalité de mes installations, dans le fond comme dans la forme. Dans « Fragmenta », la superposition de couches permet de manipuler la surface : il n’existe aucun point de focalisation à part entière, mais quand on se laisse aller et plonger dans l’oeuvre, c’est un paysage abstrait qui s’ouvre. In fine, on n’est pas confronté à un objet mais à son propre cheminement personnel : chacun cherche une association, une identification possible qui lui permettrait de traverser la surface, de suivre son éclatement, de sonder une nouvelle dimension. Et de conclure, le principe est similaire avec la vidéo : la projection d’un film d’animation vient ajouter une couche à notre perception de l’espace. Surface non cadrée, elle permet de porter un regard détaché (critique ?) sur la structure porteuse. De facto, il naît comme un décalage entre la forme et le fond, propice à l’introspection. Je virtualise l’espace ; je crée du mouvement, de la fluidité sur une surface plane et rigide. Je ramène de la vie là où il n’y en avait plus.»

Propos recueillis par Marie Le Fort, 12/2007



FATCS OF LIFE 5

Difficile de ne pas se sentir touché par la série « Facts of Life 5 » de Pippo Lionni. Les trois volumes précédents nous interpellaient avec la même efficacité qu’une « communication visuelle » brillante, mais au lieu de nous «agresser» en surface, le bombardement se faisait au plus profond de nos êtres, de notre inconscient. Le pire c’est qu’en utilisant les outils même de la communication (codes symboliques signalétiques, etc. ), sensés dicter les règles et usages de notre société, les «codes» de Pippo Lionni nous offraient d’autres dimensions de lecture, chargés d’humour caustique, d’émotion, de poésie, quand ils ne poussaient pas à la dissidence. Terriblement gonflés, ironiques, méchants, les situations et les êtres mis en scène devenaient aussi terriblement humains. Comme leur auteur le précise : « Chacun de ces êtres nous ressemble. Le Robot suggère notre fascination pour l’automatisation ; Le Pixel, la virtualisation ; et le Fragment, notre autodestruction. Leurs déroutes, leurs failles sont leurs identités. Nous sommes autant la somme de nos faiblesses (envie de tuer, de jouer avec le feu, de détruire notre environnement, de se détruire, de vieillir…) que de nos forces (aimer, donner la vie, explorer, survivre…) Comme nous, ils sont fragiles, vulnérables et contiennent en eux l’expérience, le traumatisme de la mémoire qui les a rendus vulnérables. En répétant leurs actes ils portent en eux la trace indélébile de leur histoire... et de notre humanité. »

Alors comment ne pas maudire plus encore le nouveau «Facts of Life 5», qui nous envoie de plein fouet nos faiblesses et comment ne pas y succomber, quand il les rend belles ? Ici tout n’y est que contradiction, le rationnel devient fou, le monde bien huilé des machines se dérègle, le cruel devient tendre. Plus encore, l’immoral devient émouvant, le brisé devient beau, l’être hybridé avec d’autres espèces (pictos, pixels, robots) cumule toutes les tares de chaque espèce pour nous ressembler, et donc détruire nos espoirs, nos rêves d’un monde meilleur. Comment accepter que cette «après apocalypse» n’offre même pas une chance de rédemption, un espoir d’amélioration, quand on se rend compte que cette fin du monde est sans fin, à jamais... La jubilation plastique de ces batailles, de ces scènes campées dans la grande tradition de la peinture historique,ici traitées avec de simples outils de graphiste, sans coulure de peinture, sans trace de pinceau, sans sueur, est révoltante : comment l’émotion peut donc émaner de ces êtres sans relief et sans couleur, de ces dessins sans coups de crayon ! Certaines planches formellement chargées à bloc, grouillantes d’êtres perdus, de pantins désarticulés, de monstres de l’enfer nous rappellent un «jugement dernier» que seuls des grands maîtres comme Jérôme Bosch ont osé traiter.

Alors pour qui se prend Pippo Lionni ? De quel droit peut-il flirter avec la représentation humaine, sans être ni ringard (comme beaucoup de peinture qui s’y frotte aujourd’hui), ni superficiel ou vulgaire (comme la publicité) ? Peut-être donne-t’il lui-même la réponse... le détail explose l’archétype divin du pictogramme. Mais paradoxalement, si le Pictogramme classique est un symbole universel, une icône, les super-héros de «Facts of Life 5» deviennent plus humains dans leurs idiosyncrasies.» L’Icône devenant plus humaine perdrait par conséquent toute sa valeur de suggestion. Peut-être est-ce exactement ce que fait Lionni : il montre du doigt et fait mouche !

Anne Ferrer, Paris, 2006



UN NOUVEAU LANGAGE POUR DECRIRE LE MONDE

Si les artistes ont bien une capacité à dire quelque chose de vrai sur le monde c’est à travers leurs inventions et leurs transformations. Dans un monde que nous percevons de plus en plus souvent par le relais de l’image fixe ou mobile, l’idée même de réalité est inséparable de celle de ses représentations omniprésentes.

A la fois designer, graphiste, musicien et artiste, Pippo Lionni réfléchit à cet état de chose, à ces jeux infinis de substitutions et de glissements. Il puise dans l’immense réservoir des formes de la signalétique contemporaine pour produire quelque chose d’autre. Pictogrammes et idéogrammes sur lesquels il porte un regard a la fois éthique et esthétique, constituent la base de son langage visuel. Icônes informatiques, codes numériques, instruments de signalétiques, l’être humain est ainsi signifié aujourd’hui et l’humanité réduite à une somme d’abstractions. Lassé par l’uniformisation des messages visuels Pippo Lionni agit comme un sampler qui produit de nouvelles trajectoires aux symboles qui façonnent nos modes de vie. Par emprunts, associations, oppositions, détournements et sans jamais se satisfaire d’une interprétation univoque, il joue de l’attraction et de la répulsion qu’exerce l’empire des signes. Il s’approprie un langage tout en le réinventant selon des procédés basés sur une logique de la complexité et de la contradiction. Il amplifie ou hybride les signes, en les vidant de leur fonctionnalité quotidienne.

Son travail pourrait à première vue être qualifié de minimaliste ou conceptuel, s’il n’y avait pas toujours un niveau narratif, littéraire et critique, un "contenu" donc qui complète et se superpose de façon particulière à la technique mise en jeu. Pippo Lionni assume pleinement le rôle de l’artiste en tant que conteur d’histoires et tranche avec l’attitude de certains de ses contemporains pour qui l’œuvre d’art est un objet parfait et autonome. Ses œuvres sont autant d’énigmes proposées, de saynètes pour redonner un sens aux images. Les remises en causes, les interrogations, les fausses pistes, les issues indécises sont autant de postures requises, de réponses et d’attitudes proposées par l’artiste. Des hommes voltigent, se tiennent droit tête en bas, des chaises basculent dans le vide, une main prend feu… toutes les lois de la nature et de l’attraction terrestre sont transgressées. Il ne s’agit pas tant de questionner la perte de sens de la vie quotidienne, encore eut-il fallu qu’elle l’ait perdue, mais l’obscurcissement qui nous empêche de regarder sa variété et sa richesse. Pippo Lionni ne cherche pas à représenter le monde mais à l’organiser, à formuler de nouvelles voies d’accès.

Ses pictogrammes illustrent souvent avec humour parfois avec violence ce que le discours ne pourrait que mesurer, limiter, atténuer. On ne pouvait trouver meilleur titre pour les rassembler dans un ouvrage que " facts of life " : " une expression utilisée dans la culture anglo-saxonne pour designer les questions des enfants auxquelles les adultes ne savent pas comment répondre et dont il remettent les réponses a plus tard, souvent jamais. "

Si le premier tome avait permis à Pippo Lionni d’asseoir les bases de son vocabulaire artistique, le second attestait déjà de l’efficacité de son système. Aujourd’hui le troisième volet des " facts of life " montre à quel point le langage de l’artiste s’affirme et la démarche se radicalise. Abordant des thèmes plus complexes, les pictogrammes sont autant de slogans, de signes furtifs, d’envies, de désirs ou de refoulements. Pippo Lionni agit de plus en plus comme un activiste dans la guerre des images. L’ensemble des derniers travaux présentées dans le cadre de l’exposition PrimeTime à la galerie Giroux en juin 2002 interroge de manière frontale et brutale les effets pervers de la banalisation des images médiatiques. Les œuvres offrent des oppositions, des décalages constants entre le signifiant et le signifié, fiction et réalité. La pratique artistique de Pippo Lionni s’attache à mettre en évidence de manière critique et incisive cette « période ambiguë de l’histoire de la communication sociale où la prétendue généralisation de la circulation médiatique des idées et des opinions masque en général les pires manipulations et l’existence souterraine de discours directifs » [1] Sur le mur d’une salle, on voit l’image d’une famille attablée devant un poste de télévision installé dans la pièce lequel diffuse en images animées un couple en train de faire l’amour. Le même dispositif est utilisé dans la salle en face, mais cette fois c’est le couple en train de faire l’amour qui regarde un écran où un homme se fait poignardé. Notre rapport aux choses, aux actes, à la réalité est sans cesse perturbé, modifié par la réversibilité des échanges visuels.

L’œuvre intitulée « Rape » symbolise une femme qui porte sur le corps des empreintes de main. Si le titre n’était pas explicite, qu’aurions-nous interpréter ? La main n’est-elle pas aussi un symbole de paix, un moyen pour caresser l’autre ? Dans « In the Name of God », l’agresseur est aussi l’agressé. L’artiste aime déjouer les codes tout faits et nous renvoie sans cesse la pluralité de sens. Titres et symboles se mêlent, et luttent ensemble.

Le livre est un élément supplémentaire qui sert à tisser des significations avec les installations. « PrimeTime » et « Facts of Life 3 » montrent la complexité changeante d’un artiste qui passant d’un support à un autre, veut bousculer le monde pour qu’il soit possible d’y dessiner de multiples cartes du désir, d’y construire des identités diverses et d’y augmenter les possibilités d’interaction esthétique et existentielle.

Mais quel que soit le support utilisé : livres, photographies, installations, vidéos, les œuvres de Pippo Lionni agissent sur notre faculté de représentation sans cesse à la recherche d’analogies et de liens, mais aussi sur notre perception mentale, physique et spatiale. Elles explorent les dimensions les plus intimes du psychisme humain, les notions de pulsions, et affirment une réversibilité entre horreur et extase, entre violence et érotisme.

L’œuvre de Pippo Lionni est enracinée dans sa vision critique de la réalité. Il accentue certains éléments, joue avec et nous dévoile des sens cachés. Ainsi le produit artistique devient libérateur. Il dénonce ironiquement des situations sociales intolérables, l’étroitesse d’esprit, l’hypocrisie en utilisant des métaphores éloquentes sur toutes les formes de conditionnement et d’arbitraire qui régentent nos vies.

Ses "facts of life " insistent sur l’inefficacité et l’inaptitude des systèmes existants à discerner l’insaisissable " essence de l’existence ". Ils offre un regard cinglant mais non dénué d’humour sur la condition humaine.

Pippo Lionni rappelle que si l’art est certes dispensateur d’émotions, il n’en demeure pas moins langage et pensée.

[1] Paul Ardenne in « l’image corps, figures de l’humain dans l’art du XXe siècle », Ed. du regard, Paris, 2001p.377

Samantha Barroero, Paris, 2002